Mingo’s Ah Um

Parliamo di We Remember Clifford, un bel disco uscito nel 2011 per Emarcy/Universal ed inciso da Nicola Mingo, chitarrista di razza, coadiuvato da musicisti di tutto rispetto quali Antonio Faraò al piano, Marco Panascia al contrabbasso e Tommy Campbell alla batteria. E forse, il titolo di questo post potrebbe essere il sottotitolo dell’album. Come il celebre lavoro di Mingus ha rappresentato e rappresenta tutto il vocabolario mingusiano, così il disco di Mingo si configura come un abaco contenente il suo proprio linguaggio.

Sgomberiamo subito il campo da equivoci: We Remember Clifford è un disco moderno, ben suonato, che in nessun modo può essere tacciato di passatismo o di revival tout court: il territorio marcatamente hardbop, lo swing ben presente, il blues sempre in primo piano, sono ingredienti mutuati dalla storia del Jazz ma risultano assolutamente freschi ed attuali. E se in Brown’s Blues si parte da un tema eseguito a tempo medio per giungere ad una sezione assoli per lo più raddoppiati, da Mingo prima e da Faraò poi, con la successiva traccia Daahood si viene da subito catapultati sulle montagne russe: l’effetto è quello di un tappeto volante, dal quale osservare il mondo con divertimento e leggerezza.

Si ha solo l’illusione di un momento di relax con Sandu, il bel blues di Brown nella inconsueta tonalità di mi bemolle, quando un attimo dopo arriva la title track We Remember Clifford a scombinare di nuovo tutto. Qui la struttura è scandita da una serie infinita di cadenze sottodominante-dominante di notevole apertura che, unita al movimento per semitoni del basso enfatizzato a tratti dalla mano sinistra di Faraò, crea un habitat musicale nel quale far saltellare allegramente il nostro ego. In questo brano-manifesto i quattro hanno modo di dare sfogo a tutta la loro musicalità, rimanendo sempre incollati al time grazie all’ottimo supporto di Panascia e Campbell.

Un altro attimo di respiro arriva con l’attacco di Jordu, di Duke Jordan. Anche sui tempi più lenti il “trenino” basso-batteria cammina con instancabile lena, facendoci istintivamente battere il piede. E pure qui, dopo un po’, si riparte con i raddoppi dei solisti. Raddoppi sempre eufonici, che creano una piacevole tensione verso un mondo migliore.

Il disco prosegue con La Rue e The Blues Walk, sempre di Brown, e con Easy Bop, Another Once e Narona di Mingo. Per chiudersi  poi con Joy Spring la quale, dopo una introduzione a ballad, ci spazza via per l’ennesima volta con energia e verve.

Il disco termina, e la prima cosa che ci viene da fare è riascoltarlo da capo. Non solo per la bellezza dei temi o la bravura dei solisti, e nemmeno per l’allegria che sprigiona. Ma perché serviranno tantissimi ascolti per scorgerne ogni angolo e apprezzarne ogni dettaglio. In un crescendo melodico, armonico e ritmico senza fine.

We Remember Clifford - Nicola Mingo
We Remember Clifford – Nicola Mingo

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Mingo’s Mood

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International Jazz Day 2012

Questo è lo speciale andato in onda il 30 aprile 2012, nella prima Giornata Internazionale del Jazz indetta dall’UNESCO. Una occasione per riproporre la collaudata trasmissione di Stefano Bollani, trasmissione che ha un’unica, enorme pecca: andare in onda dopo mezzanotte. Ma si sa, Roma non fu fatta in un giorno…

Sostiene Bollani speciale - Rai Tre
Sostiene Bollani speciale – Rai Tre

Con Caterina Guzzanti, i Visionari, Richard Galliano , la cantante spagnola Concha Buika e Paolo Rossi.

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Stefano Bollani @ Sanremo 2013

Mingo’s Mood

Quattro musicisti con gli occhiali. È la prima cosa che noto, a colpo d’occhio, sul palco del 28DiVino. Il più giovane di loro ha poco meno di cinquant’anni, il più grande è una colonna della musica italiana. Esperienza, dunque, rilassatezza. Quella rilassatezza che è propria di chi ha alle spalle una lunga e bella carriera. E che consente alla musica di sgorgare liquida, senza sofisticazioni o inganni.

C’è Nicola Mingo stasera, accompagnato con grande classe da Antonello Vannucchi (piano), Andrea Avena (contrabbasso), Carlo Battisti (batteria). Mingo propone un repertorio fortemente ispirato all’Hardbop, con particolare riferimento alla figura di Clifford Brown. E sono proprio di Clifford Brown molti dei brani eseguiti, da Joy Spring a Daahoud a Sandu.  Altri brani sono scritti invece da Mingo ma sempre profondamente influenzati dal grande trombettista americano, a partire dalla complessità dei temi e delle armonie, fino alla scelta di tempi pari e veloci. Molti di questi brani originali sono contenuti nel CD We Remember Clifford, uscito per Emarcy nel 2011, altri sono ancora inediti.

Il concerto di apre con Joy Spring, nel quale all’esposizione del tema segue il solo di chitarra senza soluzione di continuità. La batteria di Carlo Battisti fluttua libera, inchiodata solo dalla lucida pulsazione di Andrea Avena, il quale sembra sapere esattamente dove cadrà il prossimo beat, mostrando un playing così rilassato da rasentare la perfezione. Mingo si arrampica su arpeggi diminuiti e scale alterate, preferendo a volte l’uso polifonico dello strumento.

Antonello Vannucchi, pianista dell’orchestra RAI per trent’anni, mostra tutta la sua sensibilità già dall’attacco: aspetta perfino che scemi l’applauso a Mingo, prima di iniziare il suo assolo. Dimezza poi il tempo, usando arpeggi ascendenti sull’accordo minore e discendendo sulla scala diminuita. L’effetto è molto cool, ed introduce con efficacia l’assolo di Andrea Avena, che intavola con il suo contrabbasso un dialogo tematico, dal quale traspare una sola ed urgente voglia: raccontare la musica, porgerla ai fruitori senza mediazioni e senza sovrastrutture.

La serata fila via libera e coinvolgente. One For My Mother è una ballad dalla forte cantabilità e, in effetti, Mingo canta  anticipando con la voce le note della propria chitarra. We Remember Clifford, il brano che dà il titolo all’album omonimo, è invece un tempo up con una struttura rhythm changes di 32 misure. In Brown’s Blues, ad una introduzione di piano in trio segue l’esposizione tematica di Mingo con una parte A eseguita in due dal contrabbasso, che prosegue poi in quattro sulla parte B. Arrangiamenti essenziali, diretti, ma sempre molto efficaci.

Due set, quattro musicisti con gli occhiali, ed una domanda: ma portare gli occhiali, o avere più di cinquant’anni, aiuta a suonare bene il Jazz?

Nicola Mingo 4et
Nicola Mingo 4et

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Nicola Mingo

Antonello Vannucchi

Andrea Avena

Carlo Battisti

Rhythm Changes

Mingo’s Ah Um

Live Remembered: Island Blue 4et

Il 14 ottobre 2011 ho assistito, al Cotton Club, ad un meraviglioso concerto. Si tratta dell’Island Blue Quartet, con Francesco Cafiso (sax alto e giovanissimo leader della formazione), Dino Rubino (tromba e flicorno), Giovanni Mazzarino (piano) e Rosario Bonaccorso (contrabbasso).

I quattro presentavano il primo disco registrato da Cafiso per l’etichetta Verve, dal titolo Moody’n. Benché il titolo sia volutamente senza significato (la parola in inglese non esiste, anche se riecheggia il termine mood che significa atmosfera, stato d’animo), i brani contenuti nel disco rappresentano invece il segno primigenio del Jazz, essendo tratti dal repertorio di grandi jazzisti del passato, da Horace Silver a Charlie Parker, da Benny Golson a Miles Davis. E dove invece i brani sono originali, l’omaggio alla tradizione traspare comunque, nell’approccio dei temi, nell’arrangiamento, nelle improvvisazioni e in generale nella esecuzione.

In un gruppo particolare come questo quartetto, senza la batteria, quello che è subito risultato alle mie orecchie è stato il grande controllo dello strumento da parte di Francesco Cafiso, unito ad una ottima padronanza del linguaggio e del fraseggio. Un fraseggio aperto, moderno, quasi fisico, in cui il musicista sembra diventare un tutt’uno con il suo strumento e sembra che ogni pulsazione del proprio essere, di ogni arteria, di ogni capillare, sia funzionale esclusivamente al suono e alla musica. Di Cafiso va innanzitutto detto che, benché giovanissimo, è ormai considerato un veterano essendo sulla scena del Jazz internazionale da oltre un decennio, da quando Wynton Marsalis lo notò al Pescara Jazz Festival e se lo portò con sé nel suo tour europeo, nel 2003.

Lirico e poetico il fraseggio di Dino Rubino, il quale ha interpretato benissimo il suo ruolo, contribuendo con la sua tromba ad addolcire le sonorità più aspre e bop del sax.

Una nota particolare la devo alla sensibilità pianistica di Giovanni Mazzarino, il quale mai una volta ha dato l’idea di volersi mostrare, ma ha mostrato, e meravigliosamente, l’essenza stessa della musica, mettendosi sempre a servizio della musica e dell’ensemble.

Un trascinante Rosario Bonaccorso ha contribuito all’ottimo risultato con le sue pulsazioni, colorite a tratte dai vocalizzi, emessi da lui stesso a imitazione delle sue stesse linee.

Una serata bella, coinvolgente, trascinante e densa di significato jazzistico. Di quelle serate che ti lasciano nel cuore la gioia di essere un appassionato di Jazz.

Francesco Cafiso
Francesco Cafiso

Stefano Bollani @ Sanremo 2013

Stefano Bollani
Stefano Bollani

Quando la Musica, quella oggettivamente bella e grande, viene “data in pasto” ad una platea tanto estesa ed eterogenea quanto quella del pubblico di Sanremo, sembra sempre che succeda un miracolo: di colpo viene sfatato l’assunto che la musica “colta” o quanto meno quella “di qualità”, è “difficile” e non fa “ascolti”. Ebbene ieri sera, forse complice Ernesto Nazareth, autore (dal cognome evocativo…) dello Choro eseguito in apertura da Stefano Bollani (il cui titolo, molto ricercato in rete, è Apanhei-te cavaquinho), il miracolo si è compiuto ancora. Come immancabilmente succede per Marco Paolini, Roberto Benigni, Roberto Saviano, sia il pubblico dell’Ariston che quello televisivo sono stati rapiti dall’emozione, che sprigionava balsamica dalle dita del pianista milanese.

Dopo aver eseguito il brano di apertura, Bollani si è offerto di suonare canzoni dai Sanremo passati. In breve Fabio Fazio e Luciana Littizzetto hanno raccolto le richieste del pubblico: Imagine (richiesta evidentemente fuori tema, ma accolta), Volare, Vita spericolata, Terra promessa, Papaveri e papere. Ed ecco che Stefano dà inizio ad una introduzione degna di Rachmaninov, che sfocia nel tema di Papaveri e papere, per poi attraversare, durante la strofa, vari generi tra i quali il ragtime e lo stride piano. Si passa poi ad ardite riarmonizzazioni di Vita spericolata, Imagine, Volare, Papaveri e papere, sempre intramezzate da quei fraseggi su accordi diminuiti e scale alterate che riescono a colorare di Jazz ogni melodia. In pratica, il meccanismo è lo stesso che ha dato luogo agli standard, quei brani scritti da “non jazzisti”, in genere per commedie di Broadway, che sono stati ripresi, riarrangiati e riarmonizzati dai jazzisti. Con la differenza (non da poco) che in questo caso tali brani sono eseguiti à la carte, senza lo straccio di uno spartito.

Dunque il genio, la bravura, l’arte, la cultura, la musica fanno ascolto? Chissà che, in un Paese che non attraversa solo una crisi politica ed economica ma anche sociale e culturale, a qualcuno non venga in mente di scaravoltare tutto e di porre in agenda altro che non le solite puttanate.

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International Jazz Day 2012 (con Stefano Bollani, Caterina Guzzanti)

Niente da dimostrare

Succede che alcune serate rimangano particolarmente nel cuore, o forse succede che alcuni musicisti risultino particolarmente affini a quello che è la nostra idea della musica. Fatto sta che la serata di ieri all’Alexander Platz la ricorderò a lungo con piacere.

Il concerto è del trio di Paolo Recchia, sax contralto, composto da Luca Fattorini al contrabbasso e da Nicola Angelucci alla batteria. E già, questo, sarebbe molto. Ma c’è un ospite che fa scattare la serata dallo status di “bella” a quello di “memorabile”: David Kikoski, un pianista che ho avuto già modo di vedere dal vivo con il suo trio e che non vedo l’ora di riascoltare stasera. Lui è un signore di cinquant’anni, sempre pronto alla battuta e disponibile al sorriso. Risponde affabilmente e con sincera modestia alle mie domande, nella pausa tra un set e l’altro, e quando gli dico che l’ho già recensito mi risponde serio: “Ed era una recensione positiva?”.

Il set inizia con Blues On The Corner, di McCoy Tyner. L’atmosfera è densa di significati, stratificati nelle mille sfaccettature dei generi e sottogeneri del Jazz, ma nulla è sopra le righe: dopo l’esposizione del tema ad opera di Recchia, doppiato a tratti dal pianismo irruente di Kikoski, il primo solo è per il sax. Kikoski non rimane sullo sfondo ma è parte attiva della performance. Regisce sempre ad ogni stimolo, sia che provenga dal solista sia che provenga dalla vivace batteria di Angelucci. Apparentemente è Fattorini l’unico a rimanere in disparte, ma è solo una impressione: il contrabbassista contribuisce in realtà con una personalissima pulsazione, che fa da implacabile pungolo a tutta la struttura. Recchia appare assolutamente rilassato ed efficace: inizia con frasi blues, per poi allargarsi man mano verso pentatoniche sempre più “fuori”, aumentando ed alterando, facendoci passare in poche misure e senza soluzione di continuità da Parker a Brecker. E tutto senza dare l’idea di voler dimostrare nulla, ma solo di mettersi al servizio della musica con tutta l’intenzione di portare la nave in porto senza fare pericolosi ed autoreferenziali “inchini”.

Anche Kikoski non vuole dimostrare nulla: inizia pure lui con un forte mood dal sapore blues, inseguendo un suono che è altro da sé. Non è venuto qui stasera per far vedere che è bravo, è venuto per suonare. È qui per cercare di tirar fuori qualcosa da questo affascinante mostro ad ottantotto denti, e lo fa con grande determinazione e divertimento. E quando, sul finale, gli capita di mancare uno stacco, ride della cosa con grande autoironia. Dopo il solo di piano, un riff ritmico sottolinea i vivaci colpi della batteria, facendo salire di molto la pressione. Poi, è Fattorini a gettare acqua sul fuoco riportando i battiti sotto la soglia di allarme, con una bella improvvisazione accompagnata dal solo piatto ride.

Se il gruppo va forte nei medium e negli up tempo, sulle ballad è addirittura strepitoso. E, ancora una volta, è Kikoski che attira la mia curiosità e attenzione di pianista, quando rimane solo in Chelsea Bridge (Billy Strayhorn) e riesce a compendiare il jazz con elementi di dodecafonia, rimanendo comunque fortemente ancorato al bop.

Il quartetto messo su per questa serata sembra il quartetto della vita. Grande coesione ed unità, grande affiatamento, grande interplay. Anche la scelta della scaletta è particolare, toccando questa brani di Parker, Tyner, Recchia, Angelucci e Kikoski, in un mix molto equilibrato che si colloca nel territorio del bop ma che dimostra un respiro che va oltre ogni schema e che obbliga ad un ascolto scevro da preconcetti di sorta.

Musicisti che mettono se stessi al servizio della musica, ecco in sintesi il sottotesto della serata. Non hanno niente da dimostrare, non vogliono arrivare in cima per guardarci dall’alto ma cercano, come brave guide alpine, di portare in vetta tutti gli ascoltatori per godere insieme a noi della bellezza del creato.

Paolo Recchia Trio con Dave Kikoski
Paolo Recchia Trio con Dave Kikoski

Un folle giro di giostra

Chi mi conosce lo sa, ho un debole per gli organ trio. Per organ trio si intende un trio formato, la maggior parte delle volte, da hammond, batteria e da uno strumento solista, che sia il sax o la chitarra. Ma mai, prima di ieri, mi era capitato di ascoltare un organ duo, hammond e batteria. Come nel tipico trio, anche nel duo manca il contrabbasso. Una assenza importante, ma anche uno stimolo in più per i musicisti, che se lo devono immaginare. E dovendolo immaginare (salvo sostituirlo con il registro basso dell’organo, detto manuale inferiore), la musica guadagna in ariosità e rimane quasi sospesa, fluttuando sul tempo in maniera ancora più indeterminata rispetto a quanto non succeda già normalmente nello swing.

A dire la verità, ieri, nella consueta Guida all’ascolto curata da Gerlando Gatto, c’era anche il pianoforte. Lorenzo Tucci (batteria) e Luca Mannutza (piano e hammond), ci hanno regalato un miniconcerto gradevole, frizzante ed assolutamente rigenerante, fruito dalle comode poltrone della Casa del Jazz. Hanno attraversato, interpretandoli con personalità e classe, standard come Tea For Two, (Caesar, Youmans) e Just One Of  Those Things (Cole Porter), nonché brani come Bemsha Swing (Thelonious Monk) ed Inception (McCoy Tyner).

Gerlando Gatto, dopo aver ricordato Butch Morris, da poco scomparso, ha dato fuoco alle polveri deliziando la platea con alcune golosità d’annata, come la versione di Tea For Two eseguita da Art Tatum prima e nell’arrangiamento di Shostakovich poi, o come Bemsha Swing nelle versioni di Monk stesso e in quella dei Caribean Jazz Project. Il complemento live, come dicevo, è stato di prim’ordine; l’impatto del suono di hammond, sempre caldo e seducente, il drumming raffinato di Tucci, ci hanno trascinato in un folle giro di giostra e fatto provare, come scrive meravigliosamente Daniela Floris nelle note di copertina del loro disco Lunar, “l’esaltante sensazione di essere noi, i folli”.

Tucci/Mannutza Duo
Tucci/Mannutza Duo

Link:

CD “Lunar” Tucci/Mannutza

Organo Hammond