Waiting…

Il cd Waiting, del Massimo Pirone 4et, non è ancora uscito (ma le tracce sono già disponibili nel formato digitale) eppure è qui, davanti a noi spettatori dell’Auditorium del Massimo, all’EUR, in tutta la sua forza espressiva e comunicativa. Massimo Pirone (trombone) con Andrea Biondi (vibrafono), Luca Pirozzi (contrabbasso) e Pietro Iodice (batteria), presenta il proprio omaggio alla tradizione del Jazz. Si tratta di brani, tutti a firma di Pirone, ispirati e dedicati a musicisti quali Cootie Williams, Frank Rosolino, Thelonius Monk, Fred Wesley.

E l’omaggio ha inizio con Waiting, la title track, di ispirazione classicissima, a partire dal tema, esposto dal trombone, per poi arrivare agli assolo, trombone – vibrafono – contrabbasso. Ma quello che sorprende, in un progetto marcatamente “classico” come questo, è il cambio di passo repentino che si ascolta spesso, soprattutto grazie all’apporto di Andrea Biondi, il quale non manca di spezzare il tempo e dilatare lo spazio armonico, portando i suoi sodali e se stesso su territori aperti alla Musica Contemporanea, passando per l’atonale (o forse potremmo più schönberghianamente dire pantonale) e spingendo anche Pirozzi e Iodice (i quali tra l’altro mostrano di trovarsi perfettamente a loro agio in questi transiti) a sintonizzarsi su altre frequenze. Il risultato è una sorta di macchina del tempo musicale, che si sposta senza soluzione di continuità e con grande naturalezza dagli Anni Quaranta ai giorni nostri, rinnovando e aggiungendo.

I brani scorrono con piacevolezza, inframezzati dagli unici due standard del disco, Emily e Laura, qui mixati in una soave dedica alle due bimbe di Pirone. Di particolare impatto il brano Incubi, aperto da Iodice con i mallets, e proseguito da tutti su un pedale quasi-afro di contrabbasso sul quale si innestano le note lunghe del trombone, sostenute dagli accordi aperti del vibrafono.

Un’altra splendida serata al Massimo Jazz, ieri, la rassegna curata da Marc Reynaud e da Natacha Daunizeau. La rassegna chiuderà i battenti stasera dopo averci regalato otto serate di bella musica nell’intento – oggi sempre più difficile – di promuovere la discografica jazzistica contro tutto e contro tutti. Resta la convinzione che, finché ci saranno persone come Marc e Natacha che mettono cuore e passione in quello che fanno, ci sarà una speranza per il Jazz, per la Musica in generale, e per tutti noi.

Waiting, Kyosaku Records, 2013 – Well/Frankie Ross (To Frank Rosolino)/Incubi/Waiting/Emily – Laura/Frantic Race/Afternoon (To Cootie Williams)/Momenti/Twins/Fred’s Liks (To Fred Wesley) – Massimo Pirone (trombone), Andrea Biondi (vibrafono), Luca Pirozzi (contrabbasso), Pietro Iodice (batteria)


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Cootie Williams

Frank Rosolino

Thelonius Monk

Fred Wesley

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Music Score Pad

Se avete necessità di una app per Android che vi consenta di scrivere musica al volo, modificare una parte già scritta e condividerla poi con i musicisti del vostro gruppo, siete nel post giusto. Music Score Pad è una applicazione leggera, di facile e rapida installazione.

Ma veniamo più in dettaglio alle funzioni. All’avvio viene proposta una schermata con sei modalità: standard, tablatura, linea singola, pagina vuota, load bmp, acquire image. In basso ci sono anche le icone per aprire un progetto, per crearne uno da zero, per aprire le impostazioni, e per uscire dall’applicazione.

Cliccando su standard viene visualizzata una pagina pentagrammata sulla quale è possibile scrivere direttamente le note. In alto a destra, il simbolo dei punti cardinali è il comando che ci permette di fare il pinch in/out, per adattare lo zoom e ottenere un inserimento più agevole e preciso.

Cliccando poi in alto a sinistra, si apre il sottomenu della notazione musicale. Da qui è possibile definire la larghezza del tratto, la chiave musicale, il tempo, la durata delle note.

Una particolarità: le “stanghette” vanno inserite a mano, dopo aver posizionato la nota (piena, per semiminime, crome, semicrome, ecc. e vuota per minime e semibrevi), ed anche per separare le misure tra loro. Può aiutare il pulsante con gli assi ortogonali che, se cliccato, ci fa andare “dritti”.

Per inserire gli accordi, basta premere per qualche istante sullo schermo e apparirà un facile menu.

Molto utile la funzione di import per immagini, che consente non solo di acquisire spartiti, ma anche di andarli a modificare, aggiungendo magari una armonizzazione ad una melodia o cambiando una nota. Utilissimo soprattutto quando si ha poco tempo e si deve preparare un riarrangiamento di un brano esistente.

È possibile esportare il risultato in formato immagine ed inviarlo per email o condividerlo sui social network. La versione PLUS ha anche la possibilità di generare un file PDF.

Una app interessante, leggera e senza fronzoli, che può venire incontro alle esigenze del musicista.

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It’s Jazz Talk: due chiacchiere con Carlo Petruzzellis

Ieri sera, all’Auditorium del Massimo, Carlo Petruzzellis (chitarra, synth) ha presentato il suo disco, N.EX.T.,  insieme ai compagni di viaggio Giuseppe Russo (sassofoni), Francesco Pierotti (contrabbasso), Valerio Vantaggio (batteria). Lo abbiamo avvicinato dopo il concerto, ed ecco quello che ci ha raccontato.

[Jazz@Roma] Carlo, abbiamo ascoltato un bel concerto stasera! Parlaci di come e quando è nato questo progetto.

[Carlo Petruzzellis] Dopo vari esperimenti “elettrici” e varie formazioni, a fine 2010 si è consolidato il gruppo come lo avete ascoltato oggi. Per selezionare i brani che poi avremmo inciso, non abbiamo fatto altro che suonare dal vivo, e solo quando siamo arrivati ad una certa maturità e padronanza dei brani siamo andati in studio.

[J@R] Ascoltandoti ho avuto la percezione di un doppio registro: per cominciare, i temi rivelano invariabilmente un grande senso della melodia, e forse il tuo essere del sud ha qualcosa a che fare con questo… quando suoni gli assolo, invece, percepisco una forte influenza rock, unitamente ad un uso frequente di sequenze e riff.

[CP] In passato sono stato onnivoro! Ho ascoltato tantissimi chitarristi, non importava che suonassero flamenco, metal, rock, jazz…  L’importante era che fossero bravi, che mi facessero scoprire tutti i segreti della chitarra. Sono partito da Pat Metheny, a 14 anni, passando poi per Steve Vai, Joe Satriani, Dream Theatre, Joe Pass, Jim Hall, Paco De Lucia… Ho ascoltato tutto! E credo che ciò che si ascolta, quando suono, sia la somma di questo “tutto”.

[J@R] Un’altra cosa che ho notato è il gusto per l’arrangiamento. Che importanza ha per te, rispetto alla composizione?

[CP] Ritengo che composizione ed arrangiamento abbiano pari importanza. Una bella composizione, non arrangiata, o per la quale le varie sezioni non siano ben valorizzate, risulta brutta. A me piace comporre arrangiando a sezioni complete, che poi una volta unite danno forma al brano.

[J@R] Il sintetizzatore: ho scoperto – con piacere – che lo usi con grande sensibilità e sapienza! Anche qui c’è lo zampino di Metheny?

[CP] Molto! (ride, ndr)

[J@R] Come sei arrivato a questo tipo di suono, con il guitar-synth?

[CP] Intanto, ho una laurea in ingegneria elettronica. Dunque ho voluto unire le mie conoscenze tecniche e la musica. Il synth, e l’effettistica in generale, ti permette di sbizzarrirti, mescolando i suoni. Ma più che usare il synth alla Pat Metheny, con il suo suono synth di tromba, per esempio, mi piace creare suoni di pad.

[J@R] Ho avvertito l’utilizzo dell’LFO, tra l’altro… C’è dunque una programmazione specifica, non ti limiti ad usare i preset…

[CP] Sì, ed anche sugli effetti c’è stato un lavoro di riprogrammazione della pedaliera, in modo da splittare i vari canali: canale distorto, canale pulito, mescolati con il pedale del volume, che però controllava il gain della distorsione! Insomma, voglio avere il controllo di tutte le componenti sonore, mescolandole come su un mixer (che tra l’altro è integrato nel mio setup). Lo scopo è unire e miscelare tante sonorità. Perché ad usare il preset, si usa qualcosa che probabilmente ha già usato qualcun altro, e non va bene! (ride, ndr)

[J@R] Nonostante questa tua dedizione alla programmazione, nonostante la laurea in ingegneria elettronica… nonostante tutto questo, l’uso che fai del synth è del tutto dosato e non ridondante!

[CP] Alla fine credo che il buon gusto debba dominare. Il synth è bello, ma c’è un pericolo: se strafai, diventa brutto. O lo dosi, e crei una pasta sonora, o diventa pacchiano. Per questo cerco di non usarlo in tutti i brani, e quando lo uso cerco di fare in modo che crei amalgama, anche perché non avendo un tastierista nel gruppo, la chitarra ha qui anche il compito di riempire, usando layer sonori che si devono poter percepire senza essere invadenti.

[J@R] È importante l’affiatamento con i musicisti del tuo gruppo?

[CP] Probabilmente, in un gruppo come questo, è impossibile sostituire un musicista all’ultimo momento. Questi brani vanno suonati e risuonati in modo che tra tutti noi si crei un’empatia che ci permetta di intenderci senza segnali. Poi tra noi c’è un ottimo rapporto umano, ed una intesa che ci consente di capirci al volo. E poi ci conoscevamo già per aver suonato insieme anche in altri progetti.

[J@R] Come avete pianificato la promozione del vostro disco?

[CP] L’intento principale è promuoverlo il più possibile nei live, perché ritengo che questo tipo di musica renda più dal vivo che su disco. È una questione di energia, che il disco – o meglio – le casse del PC, non possono assolutamente rendere! Purtroppo, apro questa parentesi, nonostante tutto lo sviluppo tecnologico che c’è stato, la qualità della musica che ascoltiamo è calata.

[J@R] Anche perchè spesso la si ascolta nei formati compressi…

[CP] Infatti, considerando che adesso si può registrare fino a 192 kHz, portare poi il brano a 44.1 kHz e comprimerlo in mp3… è come uccidere! E chiudo la parentesi! Per tornare alla tua domanda, stiamo pianificando una serie di date, compatibilmente con la difficoltà economica del periodo di crisi generale.

[J@R] E allora, visto che prediligi il suono dal vivo, spero che ti farà piacere essere stato intervistato sul nostro blog, che si occupa prevalentemente dei live jazz a Roma. Grazie, e in bocca al lupo!

[CP] Grazie a te, è stato un piacere!

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Biografia di Carlo Petruzzellis

Intervista a Carlo Petruzzellis (versione radiofonica)

Sintetizzatore

LFO

Seconda settimana al Massimo Jazz

Seconda ed ultima settimana al Massimo Jazz, rassegna di gruppi Jazz con un disco in uscita, organizzata dall’Associazione Culturale 28DiVino Jazz e curata dal direttore artistico Marc Reynaud.

La prima serata di questa seconda parte prevede, giovedi 27 giugno, l’esibizione del progetto N.EX.T.”New EXperiences Time”, il cui disco è in uscita per Zone di Musica. Carlo Petruzzellis (chitarra), Giuseppe Russo (sax), Francesco Pierotti (contrabbasso), Valerio Vantaggio (batteria), danno vita a “esperimenti sonori indirizzati alla ricerca di una libertà musicale svincolata da ogni barriera stilistica”, accostando elementi timbrici e ritmici del Jazz, della Classica, del Latin e del Pop.

Venerdi 28 giugno è la volta di “DISTOPIA” N.O.T, per l’etichetta Brigadisco Records in un progetto di condivisione gratuita Grapevine Telegraph (http://www.grapevinetelegraph.joomlafree.it/). Marco Colonna (sax tenore), Luca Corrado (basso elettrico), Cristian Lombardi (batteria), presentano un lavoro di avanguardia, non facile ma che ha ricevuto numerosi apprezzamenti di critica.

Sabato 29 giugno il Massimo Pirone Quartet presenta WAITING, per la Kyosaku Records, con Massimo Pirone (trombone), Andrea Biondi (vibrafono), Luca Pirozzi (contrabbasso), Pietro Iodice (batteria). Il progetto, originale, è un omaggio a Frank Rosolino, Cootie Williams e Johnny Mandel.

La rassegna si chiude domenica 30 giugno con la presentazione di ALTRA CORSA, ALTRO GIRO  (per Zone di Musica), del Matteo Cona Quartet, con Matteo Cona (chitarra), Augusto Pallocca (sax tenore), Dario Germani (contrabbasso), Stefano Mazzuca (batteria). Il disco rappresenta un diretto riferimento all’infanzia e adolescenza del compositore Cona, infanzia trascorsa nel mondo del Luna Park.

Radio Tre omaggia Massimo Urbani

Ieri sera, nella sala A di Via Asiago in Roma, Radio Tre ha trasmesso in diretta, in occasione del ventennale della sua morte, un concerto-omaggio a Massimo Urbani. La serata, con la competente e piacevole conduzione di Pino Saulo, ha visto avvicendarsi varie formazioni.

In apertura Animali Urbani Quintet, con Maurizio Urbani (fratello di Massimo, sax tenore, sax soprano), Federico Laterza (piano, synth), Tiziano Ruggeri (tromba), Luca Pirozzi (basso elettrico), Alessandro Marzi (batteria). Suggestiva, tra le altre, la versione di A Trane From The East, brano di ispirazione coltraniana presente sull’album Easy To Love, edito nel 1987 da Red Records, qui fondato su un ostinato di piano suonato sulla parte bassa della tastiera e rallentato quel tanto che basta per infondere allo stesso un senso di misticismo e di memoria, quasi fosse la colonna sonora del film della vita di Massimo.

È seguita l’esibizione del duo composto  da Mauro Verrone (sax alto, sax soprano) e Luigi Bonafede (piano), i quali hanno incantato la platea con Preghiera, scritto da Bonafede in omaggio all’amico scomparso.

La serata è proseguita poi con il trio di Ivano Nardi (batteria), Eugenio Colombo (sax) e Marco Colonna (clarinetto basso), a testimoniare la sperimentazione e le influenze, molte e variegate, che hanno contribuito a formare la musicalità di Massimo Urbani.

L’evento, infine, si è pirotecnicamente concluso con il quartetto di Rosario Giuliani (sax alto), con Roberto Tarenzi (piano), Alex Boneham (contrabbasso) e Marco Valeri (batteria), una dimostrazione tangibile di quanto il Jazz italiano abbia da dire, anche a livello internazionale. Giuliani, tra l’altro vincitore nel 1996 della Prima Edizione del Premio Massimo Urbani, ha eseguito per la prima volta Max, da lui stesso scritto e dedicato per l’occasione al grande sassofonista scomparso.

Interessanti gli interventi, nel corso della serata, di Carola Di Scipio, Adriano Mazzoletti, Luigi Onori.

Un concerto bello, con tanto pubblico affettuoso, di quei concerti che non si dimenticano. W Massimo Urbani!

Jazz a km zero

Giuseppe Verdi ieri sera ha cambiato nome. O forse, viene il dubbio che sia esistito, più o meno nella prima metà del ventesimo secolo, un uomo di nome Joseph Greens, che spesso tirava tardi nei club della Cinquantaduesima strada di New York. Non può essere altrimenti, perché se sulle prime, il preludio dell’Aida, esposto da sassofono e chitarra, risulta effettivamente verdiano in tutto e per tutto, quando è il momento dell’assolo di chitarra siamo in pieno Jazz: swing, fraseggio, feeling!

Siamo alla quarta serata della rassegna Massimo Jazz, dove Nicola Puglielli (chitarra), Andrea Pace (sax tenore), Piero Simoncini (contrabbasso) e Massimo D’Agostino (batteria) presentano il loro progetto: la produzione di un disco con il crowdfunding, il sistema di finanziamento dal basso che sempre più sta prendendo piede nel mondo. La formazione, dal nome Hic et Nunc 4et, si prefigge di suonare le musiche di Giuseppe Verdi (Play Verdi il titolo) senza modificarne i temi e le armonie, ma arrangiandole modernamente e jazzisticamente, restituendo tutta la loro originale bellezza ma aprendole agli assoli, come è prassi operativa corrente nel Jazz. Una musica a Km zero, come ha detto ironicamente Puglielli, una musica che pesca anche dalla tradizione italiana e non solo da quella afro-americana.

E non stona, dopo il preludio al Macbeth, ascoltare il tenore di Andrea Pace che volteggia breckerianamente su un tempo raddoppiato, come non stona l’intro di chitarra di Puglielli sul preludio dell’Ernani, intro giocata su arpeggi e armonici. Non stonano le spazzole di D’Agostino, che teletrasportano il nostro Verdi nell’era dei night club, e non stona l’assolo di contrabbasso di Simoncini, perfettamente ed inequivocabilmente qui ed ora, hic et nunc.

I temi sono quelli di Simon Boccanegra, Stiffelio, Un ballo in maschera, la Traviata, La forza del destino. E se in alcuni tratti gli arrangiamenti tendono ad apparire più “classici”, a far da contraltare ci sono gli innumerevoli momenti swing e bop che non mancano di ottenere l’approvazione entusiasta della platea.

Alla fine della serata, insieme alla maggior parte del pubblico presente, decido di diventare produttore del disco. Vale sicuramente la pena finanziare una operazione interessante, divertente e, una volta tanto, culturalmente più affine alla nostra riconosciuta grande tradizione musicale.

It’s Jazz Talk: due chiacchiere con Gabriele Buonasorte

Il 21 giugno, nell’ambito della rassegna Massimo Jazz, all’Auditorium del Massimo, si è esibito il Gabriele Buonasorte Quartet, con Angelo Olivieri (tromba, flicorno), Mauro Gavini (basso elettrico), Mattia Di Cretico (batteria). I quattro hanno presentato il disco Forward, appena uscito per NAU Records. Abbiamo dunque colto l’occasione per scambiare due parole con Buonasorte.

[Jazz@Roma] Come nasce l’idea di Forward?

[Gabriele Buonasorte] Forward nasce con l’intenzione di raccontare in musica le immagini del mio vissuto e della mia contemporaneità. Per fare questo ho scelto un linguaggio semplice, diretto, senza troppi fronzoli tecnici, ma con un folto gioco di ritmi e linguaggi musicali che si mescolano tra loro, creando un amalgama di colori imprevedibili.

[J@R] Quanto conta l’affinità con gli altri musicisti?

[GB] Fondamentale, soprattutto quando la musica che si suona ha una forte componente improvvisativa, come nel mio progetto.

[J@R] Qual è secondo te la nuova frontiera del Jazz, ammesso che ci sia una nuova frontiera?

[GB] La nuova frontiera del Jazz deve parlare ad un pubblico più ampio, senza rinchiudersi nel suo elitarismo, deve comunicare emozioni e sensazioni, guardare oltre la cultura afroamericana delle origini, e cercare linguaggi più moderni.

[J@R] È difficile, oggi, produrre un disco di Jazz?

[GB] Produrlo in maniera seria è sempre più difficile, pochissime sono le realtà discografiche che fanno realmente “produzione” a trecentosessanta gradi, molte si limitano a stampare i dischi contribuendo in minima parte ai costi reali della messa in opera di un progetto musicale. Un artista dovrebbe potersi dedicare esclusivamente al lato creativo della sua opera, e poter contare su figure professionali che si occupino della vera produzione esecutiva in tutte le sue fasi, registrazione, promozione e distribuzione.

[J@R] Cosa ti auguri per il tuo futuro?

[GB] Mi auguro che questo mio ultimo lavoro venga riconosciuto ed apprezzato, così da poter fare altri passi avanti nella realizzazione della mia carriera artistica.

[J@R] E per il futuro della Musica?

[GB] Spero che la Musica venga maggiormente seguita e distribuita, e quindi sostenuta dalle istituzioni, così da poter migliorare il lavoro di tutti gli operatori del settore.

[J@R] Grazie Gabriele, ti salutiamo augurandoti il meglio possibile per la sua carriera!

Quanto a voi, vi diamo appuntamento al prossimo Jazz Talk.

Le metamorfosi di Andrea

Parte dalla mitologia e sconfina nella filosofia il discorso musicale di Andrea Gomellini. Il tema del mutamento continuo, così come rappresentato nella tradizione letteraria e mitologica dagli esseri mutaforma, viene stavolta preso a spunto per farne una metafora della vita, delle emozioni, dei sentimenti. E tale concetto è ben rappresentato nella musica, ancor più che nel titolo del disco e nei titoli delle varie tracce.

Siamo alla serata inaugurale della rassegna Massimo Jazz, all’Auditorium del Massimo, curata da Marc Reynaud, direttore artistico dell’Associazione Culturale 28DiVino Jazz. Andrea Gomellini, chitarrista e compositore, presenta il suo cd Met@morfosi, edito da Zone di Musica. Andrea è accompagnato da Claudio Corvini alla tromba, Luca Pirozzi al contrabbasso e Valerio Vantaggio alla batteria.

Andrea Gomellini è un chitarrista sensibile, che spiega nei dettagli l’ispirazione di ogni brano mettendosi quindi a nudo, come ha modo di confessare durante la serata. Ma è sicuramente un nudo artistico, che non disturba, anzi. Le sue riflessioni più profonde prendono subito forma nel primo brano, Metamorfosi, che alterna due momenti diversi, rispettivamente nella parte A, dove il tema si sposta liquidamente sfruttando sapienti cambi di tonalità, e nella parte B del brano, che diventa a tratti swing e a tratti di ispirazione hardbop. Morbidamente doppiata la chitarra dalla tromba (o forse potremmo dire che è la chitarra a doppiare la tromba?), il brano muta il tempo ed il senso, traportandoci in un continuum spazio-temporale. Già sento che sto cambiando forma: le mie braccia sono delle pinne. Poi, Le luci di Anher, ballad raffinata e cantabile, un ulteriore cambio di registro. Il tema viene snocciolato in incastri melodico-ritmici, mentre gli assoli vengono giocati sui sedicesimi di un ritmo latin. Anche i musicisti stanno cambiando: Corvini sembra un gabbiano, che sorvola il mare in cerca della preda, e controlla l’acqua con sguardo acuto ed esperto.

E se con Il cerchio di Alice, che se non fosse un 3/4 potrebbe sembrare un brano di Satie, si muta ancora, stavolta verso la forma canonica del jazz waltz, già verso la fine del brano l’ambiente si surriscalda, con Vantaggio a scomporre i quarti di una improvvisazione collettiva, dove tromba e chitarra si rincorrono, salvo essere qua e là calamitate dalle frequenze di Pirozzi, che anche lui non sfugge alla metamorfosi, e si trasforma pian piano in marinaio, al timone di questa nave che muta in barca e poi in peschereccio. Inaspettato blu arriva. Inaspettato davvero? Forse sì, ma nemmeno tanto. Perché quello che di sicuro non manca, alla vena compositiva di Gomellini, è l’istinto del lupo di mare. Sa molto bene, Gomellini, quando osare e portare l’ascoltatore in mare aperto, tra le onde impetuose dei vortici armonico-ritmici, e quando riportarlo in porto, tra le rassicuranti note di una rumba.

C’è poi Enteos, funky con una radice swing, che rappresenta l’entusiasmo, ma anche il dio che è in ognuno di noi (dal greco en theos, come ha modo di spiegare Gomellini). Ma la metamorfosi non si ferma mai, e neanche nell’apparentemente rassicurante bridge di questo brano si può stare tranquilli, e infatti Gomellini ci piazza una battuta dispari. A questo punto siamo fregati,  siamo cambiati tutti: noi ascoltatori, i musicisti, ed anche l’Auditorium del Massimo è diventato una limousine ad otto ruote, che si aggira nella notte di Roma. Scorrono altri brani, ma noi siamo usciti da noi stessi e rientrati mille volte. Le barriere sono saltate. Adesso, sappiamo che tutto è possibile.

Met@morfosi, Zone di Musica, 2013 – Metamorfosi/Le luci di Anher/Il cerchio di Alice/Inaspettato blu/Enteos/Kaka’s danza/Mrs K.B./Nanà/Le 8 ruote – Andrea Gomellini (chitarra), Claudio Corvini (tromba), Luca Pirozzi (contrabbasso), Andrea Nunzi (batteria)