Gatto perfetto

La sala A di Via Asiago 10, a Roma, è un luogo storico e magico. Storico perché da quel palazzo è passata la storia della radio italiana; magico perché tutto, dalla facciata ai marmi agli arredi, ci riporta alle cose belle di un tempo che non c’è più. Ma il mondo va avanti, ed è proprio a quest’ottica che si conforma il PerfectTrio di Roberto Gatto (batteria, live electronics), con Alfonso Santimone (piano, fender rhodes, live electronics) e Pierpaolo Ranieri (basso elettrico), esibitisi martedì 22 ottobre in diretta all’interno del contenitore Radio Tre Suite, con la conduzione di Pino Saulo.

Il mondo, dicevamo, va avanti, e si prova, da sempre, a sperimentare nuove strade. La ricerca, propria della musica come di tutte le arti, non è però sempre fruttuosa. Spesso si assiste a esperimenti, che tali dovrebbero rimanere, ma che invece vengono proposti come novità ad un pubblico che forse troppo passivamente li accetta. Non è certo questo il caso, perché Gatto-Santimone-Ranieri riescono a stregarci mescolando abilmente i colori della palette a loro disposizione: contaminazione dei generi, una certa libertà dalla forma, ancoraggio alla tradizione per quanto riguarda la scelta dei temi, uso sapiente di sintetizzatore, campionamenti, effetti, loop station.

Ed ecco Aquarela do Brasil (Ary Barroso) diventare un brano di musica contemporanea, che si sviluppa su di una atmosfera dilatata, costruita su effetti industrial e che solo in un secondo tempo disvela il suo caratteristico tema. Santimone ha il suo da fare, passa dal piano a coda (del quale, occasionalmente, pizzica le corde direttamente tuffandosi nella cassa armonica) al fender rhodes, filtrando tutto attraverso i filtri e gli effetti del suo computer. Anche Gatto dà una mano, completando il suo drumming con campionamenti e rumori. Ranieri si muove agile, tra effetti e loop, sostenendo l’impalcatura ritmica con grande sensibilità e maestria.

Con questo tipo di trattamento anche un brano come Lujon (Henry Mancini), già di per sé magnetico nell’arrangiamento originale, acquista una luce nuova, caricato ancora di più di un’aura di misticismo. Non manca lo swing, a garantire quell’ancoraggio alla tradizione di cui Gatto ha modo di parlare durante la breve intervista con Pino Saulo in apertura di programma.

Un progetto, questo, che aspettavamo da tempo: una musica che guardi al nuovo ma che sia sempre interessante, stimolante, che mantenga il gusto per il ritmo e la melodia, che incorpori le sonorità elettroniche dei nostri anni e che, in sintesi, risulti bella ed accattivante, sia per chi ha vissuto (e vive ancora) della bella musica prodotta nel secolo scorso e sia per chi, soprattutto tra i più giovani, si avvicina ora alle sette note cercando qualcosa di nuovo e diverso dal già sentito.

Un bravo a Roberto Gatto, che vanta una lunga carriera costellata di incontri celebri (uno fra tutti, Chet Baker), e che ha saputo circondarsi di bravi musicisti, giovani e in grado di rendere musicalmente, con energia e bravura, la loro visione. Ed un bravo a Pino Saulo e a Radio Tre che contribuiscono, con perizia e dedizione, alla diffusione della cultura musicale.

Il PerfecTrio ha registrato un disco in estate, che uscirà a gennaio 2014 per l’etichetta Auditorium Parco della Musica. Aspettiamo impazienti.

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Figliola’s Jazz Show

Devo dirlo subito: ieri ho assistito ad uno di quei concerti che io definisco top, e voglio dimostrarlo. Sul palchetto del 28DiVino Jazz sono saliti i Fighting 4 Jazz, nuovissima formazione capitanata da Gianluca Figliola alla chitarra, con Leonardo Corradi (Hammond), Daniele Tittarelli (sax alto), Paolo Mignosi (batteria), e ci hanno regalato un’ora e mezza di feeling, divertimento e swing allo stato puro. Quattro brani a firma di Figliola ed altri estratti dal repertorio di Monk, Shorter, Gordon, Coltrane.

Figliola è uno di quei tipi umani che ispirano da subito simpatia: presenta spesso i suoi musicisti, annuncia il titolo di ogni brano che sta per eseguire, ringrazia più volte il pubblico venuto ad ascoltare. Quasi imbarazzato dal dover parlare di sé e della sua musica, si rivela poi dirompente nel fraseggio e nella pronuncia jazzistica. Ha un grande senso ritmico, che declina senza didascalismi e con una libertà espressiva che solo un jazzista maturo si può permettere, prendendosi anche quattro misure di pausa durante un solo. Si muove con agilità tra frammenti bebop blues con squarci improvvisi sul mondo pentatonale, creando nell’ascoltatore grande interesse e coinvolgimento. Lo swing per lui sembra non avere segreti, e questo scalda tantissimo la serata.

È coadiuvato da musicisti di grande capacità, Gianluca Figliola: Leonardo Corradi, hammondista spezzino ventunenne, si rivela ben dotato dal punto di vista del fraseggio, mentre la sua mano sinistra si muove instancabilmente sui quarti dando impulso a tutto il suono emesso dai suoi sodali. Anche Daniele Tittarelli fa la sua parte, spesso portando il mood sulle strade del cool. Perfetto, infine, Paolo Mignosi, che riesce sempre ad essere giusto, impacchettando a dovere il time e portandolo verso la meta.

La meta è una platea allegra e rigenerata, che esce sorridente ed emozionata dal Club, consapevole di aver assistito ad uno di quei concerti che si possono dire top. Visto? Cosa vi avevo detto?

Pacman Returns

Il 28Divino Jazz è sempre in prima linea nell’offrire ai suoi soci le novità della scena musicale. Ed anche stasera un nutrito pubblico di appassionati ha potuto gustare Jazz di prim’ordine, suonato da musicisti di prim’ordine. Il progetto, a firma di Andrea Biondi, si chiama Pacman Nemesis e vede Andrea Biondi (vibrafono, live electronics) con Daniele Tittarelli (sax alto), Enrico Bracco (chitarra), Jacopo Ferrazza (contrabbasso), Valerio Vantaggio (batteria). Presentano il loro disco, da poco inciso ed in cerca di una etichetta.

Pacman, famoso gioco elettronico dei primi anni Ottanta, è la metafora dell’uomo, costretto ogni giorno a correre e cacciare fantasmini. Ed è proprio il campionamento del suono a 8 bit, colonna sonora del videogame, ad aprire la serata. I brani, per la maggior parte a firma di Biondi, denotano un certo gusto funky, ed un marcato utilizzo delle strutture ritmiche dispari (gli anglofoni direbbero odd meters, dove odd significa anche strano, bizzarro, ed è probabilmente questo l’obiettivo di Biondi, rendere palpabile il senso di estraneità dell’uomo alla sua vita stessa).

Si parte con Nomen Omen, caratterizzato da un tema con una parte A funky ed una parte B swing.  Il primo solo è per Tittarelli, il cui sound non manca di accarezzare con decisione le volute del brano, rimanendo distaccato come una nave dal faro. Il suono è misurato, mai strabordante; spesso si avventura fuori dalla tonalità ma vi rientra con incredibile naturalezza.

Ambarabà è il secondo brano, anche questo sui colori del funky ma che sul primo solo, eseguito da Biondi, si apre completamente perdendo una struttura ritmica propriamente detta e lasciando spazio al leader per evolvere in un fraseggio liquido, a tratti scoglioso, sempre eufonico e con impercettibili ma caratterizzanti strizzate d’occhio alla musica contemporanea. Il brano sfrutta poi degli scambi sax-chitarra, reiterati ad libitum, a creare una tensione crescente, fino ad una inaspettata chiusura. Parte l’applauso, ma poi il contrabbasso riattacca ed introduce il tema finale, che chiude davvero il pezzo.

È il momento di un brano a firma di Bracco, Alis in 3, un tre quarti ispirato che parte con una intro di chitarra sola seguita dal tema, esposto dal sax. Qui Biondi lascia generosamente la scena ai suoi comprimari scegliendo di non eseguire il solo, dando spazio prima al bravo Bracco e poi al sax di Tittarelli.

Anche il successivo brano, Keka, vede Bracco ad introdurre con un guitar solo, stavolta quasi esoterico, per via dell’utilizzo creativo di alcuni effetti. Il mood diventa poi poliritmico, sax e chitarra espongono il tema quindi parte il solo di vibrafono. Forse questo ed anche il successivo brano, Pacman Changes, sono la parte più rappresentativa del lavoro, dove quel senso di estraneità si manifesta con forza ma anche con una sorta di insita rassicurazione, che in fondo se il mondo è sempre andato così allora ce la possiamo fare, per intere generazioni siamo sopravvissuti al “logorio della vita moderna”, e dunque perché disperarsi?

La serata vola via entusiasmante, con le vibrazioni che ci avviluppano e la temperatura che sale, con un altro brano di Bracco, il Blues del gatto nero e Joe (dedicata al vibrafonista Joe Locke).

Ci aspettiamo un grande interesse delle etichette discografiche per questo lavoro, che speriamo dunque di veder presto pubblicato. E vi invitiamo a comprare il disco, quando uscirà. Anche se, come sanno bene i nostri lettori, nulla è più entusiasmante che sedersi al tavolino di un club ed ascoltare un vero vibrafono sorseggiando del buon vino.

Jazz Talk: due chiacchiere con Andrea Biondi

Due chiacchiere con Silvia Bolognesi e Angelo Olivieri

Teaser radiofonico dell’intervista

Si era al 28Divino Jazz e si stava per assistere al concerto di Silvia Bolognesi (contrabbasso) e Angelo Olivieri (tromba e pocket trumpet), i quali presentavano il loro disco Dialogo, registrato il 28 dicembre 2011 nella Chiesa di S.Pietro in Acquariis a Teano ed edito da Terre Sommerse. Ed è davanti ad un buon calice di rosso, con un simpatico siparietto tra i due musicisti toscani, che è iniziata questa chiacchierata in libertà, tra Jazz e più di qualche allegra risata.

[Jazz@roma] Silvia, perché la scelta di fare un disco dal vivo?

(nel frattempo arriva Angelo Olivieri, ndr)

[Silvia Bolognesi] Perché è capitato. Avevamo fatto un tentativo in studio, s’era fatto un demo…

[Angelo Olivieri] Niente male! (ride, mentre prende posto al tavolino insieme a noi)

[SB] Sì, niente male! No, Angelo, dicevo a Maurizio, mentre tu eri di là a fare non so cosa…

[AO] Ero a lavarmi i denti!

[SB] Gli dicevo che è piacevole sapere che c’è chi recensisce i concerti, perché vengono recensiti sempre meno…

[AO] Sicuramente i concerti sono… quasi più importanti dei dischi!

[SB] No, sicuramente sono completamente diversi! (ride) Per cui noi stasera si presenta il disco ma l’approccio sarà comunque diverso da quello che c’è nel disco stesso.

[AO] Anche se è un disco live, mentre lo registri pensi anche al fatto che stai comunque registrando un disco, mentre quando sei a un concerto sei a un concerto e basta. E poi, magari su un disco non metterei una traccia che dura venti minuti, mentre ad un concerto magari in venti minuti succedono un sacco di cose… e poi il Jazz è una musica che va vista, tanto!

[SB] Posso farti una domanda io?

[J@R] Certo!

[AO] L’hai voluto te! (ride)

[SB] Ti succede di andare a dei concerti e di non divertirti, o di venire via prima della fine?

[J@R] A volte, sì.

[SB] Ecco, ma a questo punto s’aprirebbe un dibattito… perché ultimamente mi pare di leggere solo recensioni belle. A me capita per esempio di andare a dei concerti e di pensare: “Ora vo’ al bar a ber qualcosa!” Che poi a me non piace parlar male, perché il gradimento della musica è una cosa anche molto personale, e dipende molto anche dall’umore della giornata… soprattutto questa musica qua (il Jazz, ndr). Però ultimamente sto valutando l’ipotesi di essere onesta e dire anche se una cosa non mi è piaciuta, magari mettendo le mani avanti dicendo che è una valutazione soggettiva, ma dicendo comunque quello che realmente penso.

[J@R] Insomma è una critica a noi che facciamo le critiche… secondo te lo dovremmo dire chiaramente quando un concerto non ci ha davvero preso alla pancia?

[AO] Anche, alla pancia.

[J@R] Non solo alla pancia, certo, ma per me è importante che mi prenda anche lì.

[AO] Certo, ma guarda che è così per tutti. Io faccio sempre questo esempio: quando si va a Madrid vado sempre in “pellegrinaggio” al Guernica, tutte le volte! (ride) Altri vanno a Medjugorie ed io vado a vedere il Guernica di Picasso. Ora io di pittura non capisco nulla, però… mi metto lì davanti e ci sto venti minuti! Ora dove mi può prendere il Guernica, se non alla pancia? Quindi, quello non è solo un capolavoro di pittura per tutti i pittori del mondo, ma è un capolavoro anche per tutti gli altri!

[SB] Ecco ora vorrei davvero metter le mani avanti visto che dobbiamo ancora suonare e non sappiamo quello che succederà… (risate generali), ma noi non si fanno capolavori, chiaro? (altre risate generali)

[AO] Una cosa che secondo me bisogna iniziare a fare è dire i nomi di quei musicisti bravi che capita di ascoltare. Ecco, io per esempio tutte le volte che vado a vedere il trio di Ermanno Baron con Marco Bonini e Gino Boschi, che si chiama ACRE, io godo, tutte le volte! E queste cose bisogna dirle! Per esempio, c’è un musicista che è lontano da me chilometri, tu Maurizio mi ci hai visto suonare insieme, ebbene io godo a suonare con Mauro Verrone. Perché lui è uno che ti dà l’anima quando suona, e tu stai lì e stai bene!

[J@R] Una sera, qui al 28, oltre a Mauro c’era anche Sandro Satta, bravissimo…

[SB] Io però non vorrei fare nomi, ho paura che me ne scordo qualcuno e poi ci rimangono male…

[J@R] Silvia e Angelo, quand’è che vi siete conosciuti?

[AO] Nel 2003, a Roccella Jonica, nell’orchestra di Butch Morris (recentemente scomparso, ndr). Tra l’altro (rivolto a Silvia), glie lo dedichiamo il concerto a Butch Morris?

[SB] Beh, in qualunque gesto faccio c’è una dedica a lui! (sorride)

[J@R] E dopo quella esperienza?

[AO] Ci siamo subito persi di vista! (ridono)

[SB] E quando è che ci siamo rivisti? (guarda Angelo, ndr) No perché noi abbiamo un grande amico comune, e qui faccio il nome, Tony Cattano, bravissimo trombonista e carissimo amico, si è vissuti anche in casa insieme nel periodo livornese…

[AO] Fu tramite il Franco Ferguson? O Armando Battiston? Con Federico Ughi?

[SB] Non me lo ricordo! Secondo te si offende? (rido)

[AO] Armando Battiston è un pianista nato al confine tra Veneto e Friuli…

[SB] Scusate posso andare a cercare uno stuzzicadenti? Perché mi si è incastonato… (risate)

[AO] Dicevo, Armando Battiston è un pianista cieco quasi dalla nascita, con il quale abbiamo fatto delle date in trio. In una, qui al 28, Federico (Ughi, ndr) venne a suonare la batteria.

[J@R] E dunque, nel 2003 eravate due jazzisti emergenti, ed ora? Siete emersi finalmente? (risate)

[AO] (rivolto a Silvia) Qualche sera fa con Maurizio si parlava di questa storia che ci considerano sempre emergenti, ci siamo fatti due risate, come se uno dovesse emergere all’infinito…

[J@R] Si parlava anche del famoso “tappo”, che impedisce a voi e a tanti musicisti come voi di avere una visibilità maggiore. In sostanza il tappo è costituito da una serie di nomi famosi, sempre gli stessi, che suonano in tutti i festival più importanti e che non lasciano spazio ad altri.

[AO] Il problema in Italia è che la gestione della cultura è affidata a persone che non hanno cultura. Se noi mettiamo qui dieci direttori artistici a parlare di Jazz, o di qualunque altra cosa, magari ne trovi uno che ti dice che gli piace “la musica malinconica”! Ma questa cosa me la può dire un ascoltatore, mentre un direttore artistico dovrebbe essere competente. Che poi il “tappo” è fatto di tutte persone che sanno suonare, intendiamoci. Su questo non si discute. Ma i direttori artistici dovrebbero avere anche il coraggio di rischiare.

[SB] Il tappo è fatto di poche persone, una decina o poco più, un tappino…

[AO] Se vai a vedere le programmazioni dei festival in giro, trovi che ce ne sono venti che suonano tantissimo, cento che suonano parecchio, e novecento che faticano!

[SB] Io la vedo così, che locali come questo, il 28DiVino Jazz di Roma, come la Casa del Popolo a Lodi… devo dirli tutti? (ride) L’ Ex Wide a Pisa, il Pinocchio a Firenze, sono la verità. La verità è che il Jazz non è morto, c’è un grandissimo fermento in Italia, ma… il Jazz vero non si trova negli auditorium.

[AO] Il Jazz è nei piccoli club, dove è sempre stato. E d’altra parte, mica c’era Mingus negli auditorium! E in fondo ci piace anche, così!

[SB] Certo, si sta più a nostro agio in un club che in un auditorium, dove hai il pubblico a venti metri e magari non lo vedi neanche…

[AO] Magari ci piacerebbe suonare nei club, ma con il cachet dell’auditorium! (ride)

[SB] O magari ci piacerebbe anche solo che ci fosse maggior rispetto per chi come noi ha fatto una scelta di vita come questa!

[J@R] Che poi è la situazione italiana in generale, non solo della musica. Oggi molti laureati lavorano senza essere pagati, nella speranza di farsi una esperienza da rivendere sul mercato del lavoro. Un altro esempio di mancanza di rispetto…

[AO] Un’altra cosa che vorrei dire è che mi ha dato molto fastidio, quando Veltroni ha scritto il libro su Luca Flores, che sia passato il concetto che i jazzisti sono tristi! Io non sono triste, ho un sacco di problemi ma non sono triste! Dizzy Gillespie non era triste!

[SB] Fats Waller non era per niente triste!

[J@R] Concludendo, si può spiegare questo disco… o bisogna comprarlo?

[AO] Bisogna comprarlo… ma anche venire al concerto!

[SB] Bisogna comprarlo al concerto!

Il concerto sta per iniziare, Silvia Bolognesi e Angelo Olivieri scendono nella grotta del 28 DiVino Jazz e prendono posto sul palco del club. È stata una piacevole chiacchierata.

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Sito ufficiale di Silvia Bolognesi

Sito ufficiale di Angelo Olivieri

Enrico Bracco 4et

Niente di meglio, per allentare la tensione di una settimana lavorativa, che capitare all’Alexanderplatz mentre sta suonando Enrico Bracco con il suo quartetto. Il concerto è appena iniziato con le note di Isfahan (Ellington/Strayhorn), suonata ad un tempo un po’ più veloce rispetto a quello dello storico video del nel quale Duke regge lo spartito a Johnny Hodges. Atmosfera rilassata, swing pulsante, creano un benefico effetto coadiuvando l’ipotalamo nell’abbassare i livelli di stress accumulato.

Enrico è un chitarrista sensibile, con un fraseggio agile e sempre in tema, sia che suoni moderno, con arpeggi triadici e scale aumentate, sia che suoni classico, tra scale bebop e diminuite. E non è da meno questa sera, ben coadiuvato da Luca Fattorini al contrabbasso, il quale è essenziale e perfetto al tempo stesso mentre accompagna brani originali come Sman o Alis 3.

Al sax tenore Matt Renzi fornisce il naturale compendio del leader, suonando i temi all’unisono e regalando soli belli e ispirati come in But Beautiful (Van Heusen). Non mancano momenti più up come l’esecuzione di Isotope (Henderson), e momenti più rilassati come Flower, una bossa funkeggiante scritta da Bracco nella quale Marco Valeri ha modo di dimostrare tutta la sua dote ritmica.

A sorpresa, ma non troppo, la chiusura del concerto vede il quartetto trasformarsi in quintetto, con Luca Mannutza che si materializza al pianoforte e che con All Too Soon (Ellington) ci saluta, mandandoci a casa molto più buoni.

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