Ieri sera, durante la serata di chiusura della prima stagione del Jazzit Club Roma, ideato da Luciano Vanni e ospitato dall’Auditorium Antonianum di Roma, abbiamo assistito al concerto di una giovanissima big band americana, formata da ragazzi tra i 15 ed i 18 anni e diretta dal sassofonista e didatta Shawn Costantino, la Harvard Westlake Jazz Band, una delle tante big band della Harvard Westlake School di Los Angeles.
L’impatto di una big band, ascoltata in una sala da concerto, è sempre emozionante e, per chi non l’avesse mai provato, assolutamente da provare. Ma quando quell’impatto è provocato da una big band di ragazzi come in questo caso, l’emozione è al massimo grado. Compatti, disciplinati e con una buona tecnica strumentale, i ragazzi hanno swingato su arrangiamenti di brani tra i quali Ah That’s Freedom (Thad Jones), On Green Dolphin Street (Bronisław Kaper), Night Train (Duke Ellington), 5-5-7 (Pat Metheny).
Sei sassofoni, quattro tromboni, quattro trombe e sezione ritmica la formazione, che a tratti si è esibita in veste di small combo con ranghi ridotti a quintetto o sestetto. Ottimo il sound di questo giovane ensemble, che ci ha fatto battere il piede quando per la botta degli arrangiamenti, eseguiti con piglio e decisione, quando per il solo di piano in apertura di Night Train, quando per la prova solistica della giovane sassofonista.
Nel complesso una performance piacevole, che incanta e che, purtroppo per noi (italiani), lascia l’amaro in bocca a causa del fatto che, nelle nostre scuole, si suonano ancora solo flauti e chitarre.
Ieri pomeriggio, all’Auditorium Antonianum in viale Manzoni 1 a Roma, il direttore ed editore della rivista JazzitLuciano Vanni ha presentato il suo visionario progetto che ha come cardine la rinuncia ad ogni finanziamento pubblico. La sua idea nasce dalla considerazione che a tutt’oggi vengono spesi molti milioni di euro per finanziare festival dei quali si sa poco o nulla, che nulla portano alla cultura (intesa, come asserisce Vanni, nel senso etimologico del termine latino colere, coltivare) e che non sono altro che strumento di propaganda elettorale per l’assessore di turno. L’idea di Vanni è di rinunciare ai soldi pubblici, al contempo chiedendo che tali soldi vengano impiegati per finanziare delle “Case della Cultura”, nelle quali svolgere attività formativa di base su musica, arti figurative, architettura, ecc. tenendo distinte la cultura (formazione), che deve essere finanziata, dallo spettacolo (festival), che deve finanziarsi autonomamente senza intervento pubblico.
Un progetto ambizioso, anche rischioso, come ha detto Gegè Telesforo intervenendo ieri in conferenza stampa, in quanto espone gli artisti al rischio di veder legati i propri guadagni ai biglietti venduti, spesso troppo pochi. Ma va anche detto che, ad oggi, la maggior parte degli artisti non ha nemmeno spazi e occasioni per esibirsi, mentre i tanti festival ospitano sempre e soltanto i soliti dieci nomi.
Gegè Telesforo e Luciano Vanni
Una cosa è certa: per come stanno le cose, ogni nuova idea è benvenuta se ha lo scopo di dare una scossa al sistema, drogato come è di finanziamenti spesso (se non sempre) mal utilizzati. In questo ci sentiamo di appoggiare e incoraggiare il protocollo FIZ (Festival ad Impatto Zero) proposto da Luciano Vanni.
Nell’occasione Vanni ha anche presentato, con motivato orgoglio, i Jazzit Club nati nella penisola grazie alla sua incessante ed energica opera, volta alla ricerca di persone e realtà imprenditoriali disposte a condividere e portare avanti la sua idea di impatto zero. Sei le nuove realtà ad oggi, a Roma, Milano, Montefalco PG, Rovereto TN, Matera, Volla NA, che ospiteranno a breve la loro prima stagione di concerti (stagione che, per quanto riguarda Roma, si è appena conclusa presso l’Auditorium Antonianum, che ha ospitato l’iniziativa). Anche i Jazzit Club sono frutto della visione di Luciano Vanni: i club vengono ospitati da una struttura esistente, che sia centro congressi, ristorante, teatro, ecc., la quale mette a disposizione lo spazio e l’accoglienza, con il ricavato che viene diviso in parti uguali tra struttura e musicisti.
Altre iniziative presentate sono la festa in occasione dell’International Jazz Day, che si terrà il 30 aprile sempre all’Antonianum con il patrocinio diretto dell’UNESCO, festa che vedrà l’intervento di musicisti quali Gegè Telesforo, Giovanni Tommaso, Stefano Di Battista, Rosario Giuliani e tanti altri.
Ancora, la seconda edizione del Jazzit Fest di Collescipoli (TR), che si terrà tra il 27 ed il 29 giugno prossimi e che già dalla prima edizione è stata fucina di incontri interessanti e belle esibizioni, con tanti musicisti provenienti da ogni parte d’Italia e in una cornice – quella del borgo antico di Collescipoli – che ha ulteriormente impreziosito la valenza sociale, artistica e culturale del festival.
Tanta carne al fuoco, dunque, sempre e soltanto nel solco – ormai diventato un must per Vanni e per il suo staff – della rinuncia totale ai finanziamenti pubblici.
Lo diceva mia nonna, lo dice mia madre, lo dico anche io: ma dove andremo a finire con tutti questi ragazzi che invece di andare al pub a ubriacarsi, invece di stordirsi di tunz-tunz-tunz in discoteca, invece di passare le ore a chattare sui social network, si mettono a studiar la musica, addirittura una musica così complicata come il Jazz, e poi non paghi si fanno crescere una barba alla Bill Evans dei tempi migliori e vanno in tour per l’Europa a presentare i loro dischi! Sì, perché questi ragazzacci hanno anche l’ardire di fare dei dischi!
Sono queste le considerazioni che ho nella testa mentre ascolto gli Omit Five, un gruppo di giovanissimi veneti con Ornette Coleman nella testa ed il rock dei Nirvana nel DNA. Penso a tutti gli altri ragazzi, quelli che non si sognerebbero nemmeno di varcare la porta di un club come il 28DiVino Jazz, non immaginando che dietro quella porta ci sono dei loro coetanei i quali, invece di perder tempo (e la perdita di tempo non solo non porta frutti, ma ti lascia un senso di vuoto esistenziale difficile se non impossibile da colmare), danno vita ad uno, due, dieci progetti di musica di contaminazione ma non solo, una musica che è comunque capace di dare la “botta” e di portarti via.
Non è un genere facile quello che propongono, questo va detto. Ma va anche detto che, se si segue un percorso musicale, la musica degli Omit Five è uno dei naturali possibili punti di sbocco. Tutto sta a seguirlo, un percorso, ma purtroppo quello che spesso si registra è una diffusa scarsità di interesse verso l’approfondimento musicale da parte del pubblico, il quale si lascia guidare dalle tendenze imposte per lo più dai media. Ma questo è un discorso lungo, che merita un articolo a parte.
Tornando al concerto di ieri sera, il quintetto è formato da Mattia Dalla Pozza (sax alto), Filippo Vignato (trombone), Joseph Circelli (chitarra), Rosa Brunello (contrabbasso), Simone Sferruzza (batteria). Si inizia con Homogeneus Emotions, di Ornette Coleman, a dare subito l’imprinting alla serata: quello che notiamo è una grande sicurezza, una empatia assoluta sia con il mondo free jazz ma anche con la scrittura e gli arrangiamenti, una capacità di incarnare la musica nelle sue mille sfaccettature. Si arriva ad un interludio di chitarra, che prepara l’arrivo del primo brano originale della serata, a firma di Circelli. Inizia così un percorso in equilibrio tra rock, jazz, e free. Se dovessi dare un etichetta ad ognuno dei musicisti direi che Dalla Pozza, Brunello e Sferruzza sono l’anima più jazz della formazione, Circelli quella rock, Vignato quella free. Ovviamente ogni gradiente che sfumi tra l’una e l’altra anima è possibile, anzi probabile. Tutti i membri del gruppo concorrono con la loro scrittura al repertorio. Colpiscono molto le dinamiche, curate e ben riuscite, in particolare nella ballad Three Views Of A Dream, di Rosa Brunello. Ritmicamente interessanti brani come Pina Bausch, dedicato alla coreografa e ballerina tedesca, nel quale il battito delle mani crea un ritmo danzabile, e l’omaggio a Kurt Cobain, che inizia con un poliritmo creato dal soffio cadenzato nel trombone e da quello di Dalla Pozza in una bottiglia di birra vuota. Infine, scavezzacollo il bis lanciato a velocità folle e ben sorretto dalla tecnica consolidata dei cinque.
Mi dicono che suonano più spesso all’estero che in Italia, questi ragazzi. Spero davvero che la tendenza si inverta, e la cultura torni ad essere centrale nel nostro Paese. Nel frattempo, non possiamo non fare il tifo per gli Omit Five ed augurare loro tanta fortuna come meritano.
Viaggio nelle memorie disponibili è titolo del disco dell’Andrea Zanzottera 4et per Orange Home Records, presentato giovedi scorso al Jazzit Club Roma di Luciano Vanni.
L’atmosfera è magica, più del solito in un Jazz Club. Perché, mi chiedo? E rimango immobile, rapito, nell’ascolto del primo brano, Altes Lied, una ballad evocativa ed onirica, introdotta brevemente dal piano per poi lasciare la parola al sassofono tenore, che per tutto il brano racconta di rimembranze, immagini, profumi, attese e fotogrammi, memorie che tutti più o meno condividiamo ma che, per ognuno di noi, significano cose diverse, come hashtag che richiamano concetti più profondi e più intimi rispetto al comune sentire. Il sax continua le sue volute ampie ed avvolgenti, ed io sono sempre immobile, incapace di prendere appunti per la mia recensione, come di solito faccio.
Andrea Zanzottera (pianoforte), Stefano Guazzo (sax tenore, sax contralto), Pietro Martinelli (contrabbasso), Folco Fedele (batteria), sembrano fratelli gemelli. Il feeling e l’interplay sono tra loro particolarmente palpabili, evidenti. Strettissimo il dialogo, fatto anche di sguardi e di intese probabilmente costruite nell’arco di tante collaborazioni tra loro, di Martinelli e Fedele. Perfetto il sax di Guazzo, naturale compendio al pianismo efficace di Zanzottera.
Le composizioni, la maggior parte a firma del leader, sono convincenti e riescono sempre ad evocare qualche reminiscenza, come da intento programmatico dettato dal titolo del disco. E questo anche grazie agli arrangiamenti, costruiti ad otto mani da tutti i membri del quartetto. Come in Viaggio a Shamballa, dove su un ritmo funkeggiante si innesta un tema all’unisono di sax soprano/piano/contrabbasso, per poi sciogliere il tutto in un assolo di Guazzo permeato di innalzamenti del settimo grado della scala minore con il tipico effetto arabeggiante della scala armonica. È poi il piano a spezzare il groove, creando un momento di apertura nel quale ha modo di insinuarsi l’archetto di Martinelli, per poi riprendere il passo iniziale con il piano ad interpretare il solo con grande feeling. Bello il piglio melodico del contrabbasso nel suo assolo, ed interessante il ritmo in sedicesimi tenuto da Fedele nel finale.
Belli i vari momenti di apertura all’interno dei brani, aperture che spezzano un ritmo strutturato in qualcosa di più moderno, come ne Le macchie di Rorschach in cui l’atmosfera diventa quella tipica della musica contemporanea, con l’uso dei mallet da parte di Fedele e con Guazzo a delineare sequenze per grado congiunto. Il tutto sfocia poi in un walkin’ che poi diventa free jazz per poi tornare in ambito contemporaneo. Una giostra resa plausibile dal grande affiatamento dei musicisti e capace di ingenerare nell’ascoltatore l’ebbrezza del volo.
Una diffusa sensazione di piacere mi pervade ancora, nutrito dal ricordo degli anni 70, degli anni 80 e poi di nuovo indietro: Le interazioni forti, Morning Mist, Il trionfo dello spreco, Next Trip, Sometimes Sorry, Last Motif, quest’ultimo a firma di Guazzo, e fino al bis dal sapore piacevolmente bebop, sempre a firma di Guazzo, che mi manda a casa del tutto rigenerato. Un quartetto da ascoltare dal vivo appena vi capita l’occasione.
Venerdì sera, alla Casa del Jazz, un giovane sassofonista di nome Mattia Cigalini ha fatto sapere a tutta la numerosa platea, semplicemente suonando il suo sax alto, che ci sono ancora giovani musicisti pronti a rottamare i vecchi. Questa asserzione va letta non in senso negativo, ma come pungolo a tutti, giovani e vecchi, a fare sempre di più e meglio.
Siamo in tanti, nonostante la pioggia, e la formazione che abbiamo dinanzi è particolare, senza basso. Oltre a Mattia Cigalini (sax alto), leader della formazione, ci sono Gianluca Di Ienno (pianoforte) e Nicola Angelucci (batteria). Si parte subito alti, con un brano che ricorda da vicino gli Yellow Jackets e che si ispira a culture lontane. Cigalini non ha fretta di esibirsi, non cerca il numero come si conviene ad un musicista di lunga esperienza. Attende con atteggiamento ispirato il momento del guizzo, l’estro creativo.
Ed ecco che il secondo brano, East, strutturato su tempi dispari, offre l’occasione, a lui come ai suoi comprimari, di misurarsi con una struttura più complessa, per quanto basata su un concetto modale. I ritmi diventano più veloci, il sax si avventura su impervie sequenze triadiche, il tutto sempre con grande controllo.
Symbolic è l’ulteriore passo di questa ascesa di cui siamo parte, ascesa dalla terra al cielo o, come usa dire in questi giorni, dalla bruttezza del quotidiano alla bellezza assoluta: ad una intro basata su un pedale di piano, si sovrappongono i mallets di Angelucci a conferire un aspetto tribale. Su tutto questo, Mattia gestisce con apparente semplicità un assolo in crescendo, passando prima da frasi liriche e consonanti per arrivare poi, in un crescendo emozionale, a frasi sempre più repentine a tratti sconfinando nei sovracuti.
In Horus, ad una intro di sax molto up segue poi un interludio pianistico più lento, con la batteria ed il piano stesso ad eseguire puntillismi dando la giusta verve al solista il quale ha così lo spunto per agganciarsi ad un ritmo swingante, con la batteria a scomporre con metro diverso dando così una sensazione di poliritmia.
Il concerto continua a farci ascendere, fino a quando, sul finale, Mattia decide di travolgerci direttamente, con un brano dal marcato accento bebop nel quale il sax esegue uno slap, il piano suona la walkin’ line, la batteria picchia forte e ci ricordiamo tutti all’improvviso dell’epoca d’oro, e mi chiedo: e se fosse nata stasera una nuova epoca d’oro?
Stasera mi capita di assistere ad un concerto e di accorgermi, all’improvviso, che non è necessariamente il suono muscolare che fa un sassofonista. D’accordo, ormai l’estetica più marcatamente bebop è lontanta nel tempo (ma nemmeno poi tanto, se si guarda ai tanti emuli di quel periodo d’oro), ma l’ascoltare Milena Angelè ed il suo sax tenore mi apre prospettive nuove. A voler fare un confronto ardito, potrei paragonare il suo sassofonismo al pianismo sensibile e poetico di Lyle Mays.
Inizia la ormai tradizionale rassegna Pinky High Jazz, che il 28DiVino dedica ogni anno al Jazz declinato al femminile: Milena Angelè (sax tenore) è accompagnata dal suo trio bassless, con Edoardo Ravaglia (piano e tastiere) e Mario Lineri (batteria) ed esegue brani originali oltre ad alcuni pezzi di Wayne Shorter (Footprints, Tom Thumb, ESP), dichiarato riferimento di Milena. L’occasione è propizia anche per parlare del suo disco Resiliency, appena uscito per l’etichetta Zone di Musica, che verrà presentato ufficialmente al Cantiere, in via Gustavo Modena 92, il prossimo 15 marzo.
Il concerto inizia con Footprints il cui tema, esposto dal sax tenore, è sostenuto dal comping di Ravaglia al sintetizzatore. L’atmosfera si fa subito fumosa, e si intravedono gli arredi di un club newyorchese degli anni 60, ma anche le nebbie di un porto nordeuropeo.
Si passa ad un intermezzo, scritto dal pianista Ravaglia, un 3/4 delicato che introduce il tema altrettanto delicato di Sliding a firma di Milena. Il mood poetico si percepisce senza soluzione di continuità anche in pezzi più up come Resiliency, la title track, mentre l’equilibrio ed il gusto della sassofonista sono sostenuti con grande dedizione e rispetto da parte dei suoi sodali, i quali non mancano di sottolineare o di arretrare qua e là, a seconda del caso.
In scaletta anche The Days Of Wine And Roses, l’indimenticato brano di Henry Mancini, e standard quali Moon River e Night And Day.
Alla fine della serata ho l’occasione di fare due chiacchiere con Milena Angelè, a coronamento di quello che è stato sicuramente un concerto interessante e piacevole.
Su disco Milena è accompagnata da Edoardo Ravaglia al piano e tastiere, da Enrico Bracco alla chitarra, da Riccardo Gola al contrabbasso e da Fabio Sasso alla batteria.