Paolo Tombolesi Trio @ 28DiVino Jazz

Un trio che celebra magnificamente la tradizione del trio. Non mi vengono altre parole per descrivere il trio di Paolo Tombolesi (piano) con Stefano Cantarano (contrabbasso) e Alessandro Marzi (batteria), che sabato scorso hanno dato vita ad un concerto di brani originali tutti a firma del leader.

Il primo è Monte Amaro, introdotto da una serie di armonie tensive del piano, poi affiancato da Cantarano e Marzi a prorompere in un 6/8 swing raffinato. Un playing estroverso ed assertivo, lontano dal carattere un po’ schivo e gentile di Tombolesi. Si comincia bene, per cui mi accomodo meglio sulla sedia di un 28DiVino Jazz pieno di gente.

Molti dei brani fanno parte dell’album Unawares, uscito nel 2004. Tutti sono improntati ad una apertura, mentale e musicale, con diversi momenti e stili presenti all’interno della composizione: dall’approccio “contemporaneo”, che ricorre più di una volta  anche solo come accenno (per esempio nel citato Monte Amaro), agli echi evansiani che emanano dalla intro della ballad Before The Dance, per poi virare verso uno swing  sanguigno in una teoria di continui cambi di passo, una sorta di mini-suite che, come ci racconta Tombolesi, scrisse per il teatro e che non può che ben figurare anche eseguita in un jazz club.

Presenta ogni brano, Paolo Tombolesi, rendendo dunque ancora più interessante la performance, con piccoli aneddoti su come e perché sia nato questo o quel pezzo. E così scorrono via i minuti, con le nostre orecchie accarezzate da un’altra ballad, affrontata con piglio pop-rock, dall’enigmatico titolo Quando sarò piccolo. E poi da Stress, brano trascinante e coinvolgente, costruito sulla struttura armonica di Cherokee (Ray Noble), che chiude il primo set.

E poi Ketty aspetta, il contributo di sapore latin alla scaletta, Fancies, ballad onirica nel quale non manca di dare un importante contributo Alessandro Marzi, che suona con le mani nella prima parte del brano evocando una atmosfera di grande emozione.

Ancora, Dance From Another Time, ispirato ad un minuetto di Mozart (che Tombolesi accenna al piano prima di iniziare il pezzo), e Night Questions, anche qui con il giro armonico mutuato da un brano della tradizione jazzistica, On Green Dolphin Street (Bronisław Kaper).

Il tempo di un bis ed il concerto è già finito. E me ne torno a casa pensando che Paolo Tombolesi non ha nulla da invidiare ai più celebri pianisti anche internazionali che si ascoltano di solito, e che ciononostante è così raro poterlo ascoltare dal vivo o su disco. Un musicista così va valorizzato e condiviso quanto più possibile, e ci auguriamo che questo concerto sia l’inizio di una lunga serie.

Unawares, di Paolo Tombolesi Trio

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Consonance

Un progetto interessante, fresco di novità ma anche ben radicato nella tradizione quello dei Consonance di Filippo Vignato (trombone) e Rosa Brunello (contrabbasso), con Stefano Tamborrino (batteria) ed Enzo Carniel (piano, fender rhodes), che venerdì sera si sono esibiti al 28DiVino Jazz di via Mirandola 21.

Novità e tradizione, dicevamo e lo si capisce da subito, quando al brano meditativo in 3/4 eseguito a inizio concerto, a firma di Vignato, segue un brano (sempre di Vignato) dedicato al trombonista tedesco Albert Mangelsdorff.  Uno sguardo avanti ed uno indietro, dunque, uno schema che si ripete anche quando si passa da Ornette Coleman a Sister in Law, jazz waltz a firma di Brunello, magistralmente introdotto al fender rhodes da Carniel.

Una grande cura delle dinamiche, spesso improntate ai piano e  ai pianissimo, ma anche slanci repentini caratterizzano questo bel quartetto. Con un sostegno ritmico attento e misurato da parte di Tamborrino, Rosa Brunello punteggia con cura e partecipazione emotiva ogni singolo quarto. Pieno e rotondo il suono di Vignato, denso e pregno di sostanza il pianismo di Carniel.

Si chiude con Ogunde, che fa parte di Expression, ultima incisione di John Coltrane. Contentezza di tutti, anche di Marcello Rosa, presente tra il pubblico e che si è a lungo complimentato con Filippo Vignato.

Nei prossimi giorni il quartetto entrerà in sala di registrazione per documentare su disco questa esperienza. Prendete nota.

Fabio Tullio 4et @ Alexanderplatz

Continua la serie fortunata dei bei concerti ai quali ho occasione di assistere in questo periodo. Un disco, dal curioso titolo Ogopogo, appena pubblicato sulle piattaforme digitali, è il pretesto per l’uscita di questo strepitoso quartetto che ieri sera, sul palco dell’Alexanderplatz, ha dato prova di poter tenere testa a qualunque star mondiale del Jazz. E se questa affermazione vi sembra esagerata fidatevi, è solo perché ieri sera non c’eravate…

Fabio Tullio (sax tenore, sax soprano), Alessandro Gwis (pianoforte), Luca Pirozzi (basso elettrico) e Massimiliano De Lucia (batteria) non hanno bisogno di presentazioni. Tutti musicisti di esperienza e talento, tutti in prima linea nel Jazz, già sulla carta si presentavano come una formazione di tutto rispetto. Ma quello che è scaturito è stato a mio avviso qualcosa di diverso e di più.

Di diverso perché, a dispetto dell’età (non me ne vogliano ma nessuno dei quattro ha più vent’anni), il sound che è venuto fuori è moderno, aperto ed internazionale. Un suono che ci saremmo aspettati da un gruppo americano, per dire. Di più, perché le composizioni, tutte originali a firma di Fabio Tullio a parte Footprints (Wayne Shorter), eseguita in apertura di secondo set, hanno un respiro che va anche oltre il Jazz, aspirando ad essere musica che prescinde dalle etichette, pur rimanendo Jazz fin nelle viscere.

Il brio di questa formazione emerge da subito, a partire da Sonni, il brano d’apertura del concerto. Ad un trascinante solo al sax tenore di Tullio fanno da contraltare le swinganti frasi di Gwis, a tratti disposte su intervalli di quarta, ripetute con variazioni a distanza di semitono le une dalle altre. Irruento, quasi un piano inclinato verso un fantastico baratro, l’accompagnamento di Pirozzi (al basso elettrico per la rottura del suo contrabbasso durante le prove), che morde il freno rendendo urgente ogni singola nota pizzicata, in bilico sull’acme del godimento musicale più sfrenato. Godimento ben sottolineato dal drumming preciso e tagliente di De Lucia. Scambi di 8 battute su 4 concludono il giro prima dell’head finale.

La cifra del concerto è racchiusa già tutta nel primo brano, dunque, ma sarebbe un delitto non scrivere di Mr. Chron, “dedicato” da Tullio al morbo col quale convive da anni e che rappresenta forse una sorta di autoanalisi dell’autore; o non parlare del divertente Ogopogo, la title track del disco, un titolo palindromo per un brano palindromo, nel quale il tema è eseguibile da capo a coda o da coda a capo con lo stesso risultato sonoro, e nel quale gli assoli stessi si invertono e, come in un vortice spazio-temporale, dopo la volta del sax del piano e del basso si torna indietro, di nuovo col solo di piano e poi di sax, per poi tornare al tema. Un brano con echi cool (mi vengono in mente Lennie TristanoLee Konitz, su tutti) che stuzzica la curiosità su più livelli.

La vena ironica di Tullio viene fuori in tanti titoli curiosi, come da lui stesso sottolineato durante la presentazione dei vari brani, ad esempio in Qwerty, un titolo buttato a caso digitando i primi cinque tasti della tastiera del computer ma che nulla lascia al caso nella struttura del brano essendo un even eights sofisticato, giocato su un tempo in 7/4, che ad una lunga introduzione di basso fa seguire un tema di ispirazione latin che avviluppa gli ascoltatori, traghettandoli con maestria verso la sezione degli assoli.

Non mancano brani marcatamente sentimentali come Love Song, introdotta al piano da Gwis (mi ha ricordato alcune cose di Sakamoto) e con un tema suddiviso in una parte lenta, quasi filmica, ed una parte up-tempo, che dà verve all’impalcatura sonora e ci costringe a battere il piede.

Non mancano nemmeno altri riusciti espedienti, come una sorta di puntillismo tra soprano e basso in Asterischi vari, un brano nel quale prevalgono atmosfere in out playing, nel solo di soprano, e di ispirazione araba nel solo di piano, solo di piano che si apre poi in una serie di block chords a creare dei riff perfettamente funzionali al brano stesso.

Tanto divertimento, ma anche impegno ambientalista con Gea, meravigliosa composizione che sembra riprodurre il respiro di Madre Terra, nel quale su un pedale di piano si innesta il tema del tenore, tema composto da frasi brevi alternate a note lunghe, di grande attitudine evocativa.

Infine, Tuning Tune è l’esplosione finale, una teoria ininterrotta di note palleggiate tra i vari solisti, un turbinio eccitante che ci dà la conferma finale, se mai ce ne fosse bisogno, che questo gruppo e questo disco sono qualcosa di notevole, che non si può non ascoltare se si va dicendo in giro di amare il Jazz. L’ho detto, poi fate come volete.

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