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Glasper e Moran al Roma Jazz Festival

Tanti, tantissimi pianisti erano tra il pubblico dell’Auditorium Parco della Musica, ieri sera, al concerto di Jason Moran e Robert Glasper, ma anche tanti, tanti ragazzi. Un bel segnale il fatto che, quando il Jazz fa cenno di avvicinarsi al mondo di oggi, anche i giovani mostrino interesse e si avvicinino al Jazz.

Jason Moran e Robert Glasper, due pianisti. Entrambi nati a Houston, entrambi hanno frequentato la High School for the Performing and Visual Arts ad Houston. Moran ha iniziato col piano classico, Glasper seguendo la madre che cantava professionalmente il Jazz ed il Blues.

Buio in sala, Moran e Glasper fanno il loro ingresso. Fuori c’è il diluvio, è stato diramato un “allerta meteo” ed un rumore violento, forse un tuono, spaventa il povero Glasper, che istintivamente guarda la platea con una smorfia comica di terrore. La cifra è chiara, chi pensa all’Auditorium come ad un luogo sacro è avvisato: stasera si ascolta Jazz, ma si ride pure.

Moran attacca, subito seguito da Glasper. Inizia un lungo dialogo, per lo più giocato su toni cupi. Una atmosfera che ricorda i Radiohead, che si snoda per diversi minuti, e che di sicuro è di grande appeal per le giovani generazioni. Personalmente gradisco di più il boogie che segue, con momenti giocati su walkin’ line, altri sullo stride piano. Si percepiscono alcune differenze tra i due pianisti: più classico, in senso contemporaneo, Moran, più blues, più jazz, Glasper. Più serio il primo, più divertito il secondo. Da questo incontro/scontro sta nascendo qualcosa di bello, di godibile, questa sera.

Non è nuova al pubblico del Jazz la performance di due pianoforti, a partire dal celebre disco Great Times! (Duke Ellington, Billy Strayhorn) fino al recente Orvieto (Chick Corea, Stefano Bollani), ma l’ascoltarli dal vivo è, come sempre, altra (splendida) cosa. Assistiamo così a due pianoforti che man mano si trasformano: quello di Moran, preparato dallo stesso durante l’esecuzione, diventa batteria, quello di Glasper, anch’esso preparato al volo, diventa un sitar; ed ecco che il duo pianistico si “apre”, suonando come un intero jazz combo.

Glasper rimane solo. È un momento intenso, lirico, durante il quale si lascia anche andare a dei fraseggi vocali i quali, al contrario di quelli (famosi) di Jarrett, sono intonati e seguono pedissequamente l’outline della melodia.

Poi Glasper esce di scena, ed è la volta di Moran, che squarcia il silenzio con cluster violentissimi e frammenti di scale, entrando repentinamente nel territorio della musica contemporanea tout court per poi gradualmente allontanarsene, tornando ad una atmosfera trance, durante la quale Glasper rientra in scena mimando un balletto, scatenando di nuovo grandi risate in platea.

Parte un accenno di vamp, e riconosco Maiden Voyage (Herbie Hancock). È eseguita con una suddivisione ritmica che, come ha avuto modo di dire Glasper, è ispirata dal brano dei Radiohead, Everything in Its Right Place. Ancora una volta ritorna la band inglese, che tanto ha influenzato jazzisti di tutto il mondo (a partire da Brad Mehldau), a contaminare il Jazz di oggi.

Ancora un brano di Monk (omaggiato anche dal duo Barron/Holland, su questo stesso palco, tre gioni fa, ndr), Think Of One, e poi, per la gioia dei giovani presenti, una ballad a firma del rapper Scarface, anche lui di Houston.

Alla faccia di chi dice che il Jazz è noioso.

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Niente da dimostrare

Succede che alcune serate rimangano particolarmente nel cuore, o forse succede che alcuni musicisti risultino particolarmente affini a quello che è la nostra idea della musica. Fatto sta che la serata di ieri all’Alexander Platz la ricorderò a lungo con piacere.

Il concerto è del trio di Paolo Recchia, sax contralto, composto da Luca Fattorini al contrabbasso e da Nicola Angelucci alla batteria. E già, questo, sarebbe molto. Ma c’è un ospite che fa scattare la serata dallo status di “bella” a quello di “memorabile”: David Kikoski, un pianista che ho avuto già modo di vedere dal vivo con il suo trio e che non vedo l’ora di riascoltare stasera. Lui è un signore di cinquant’anni, sempre pronto alla battuta e disponibile al sorriso. Risponde affabilmente e con sincera modestia alle mie domande, nella pausa tra un set e l’altro, e quando gli dico che l’ho già recensito mi risponde serio: “Ed era una recensione positiva?”.

Il set inizia con Blues On The Corner, di McCoy Tyner. L’atmosfera è densa di significati, stratificati nelle mille sfaccettature dei generi e sottogeneri del Jazz, ma nulla è sopra le righe: dopo l’esposizione del tema ad opera di Recchia, doppiato a tratti dal pianismo irruente di Kikoski, il primo solo è per il sax. Kikoski non rimane sullo sfondo ma è parte attiva della performance. Regisce sempre ad ogni stimolo, sia che provenga dal solista sia che provenga dalla vivace batteria di Angelucci. Apparentemente è Fattorini l’unico a rimanere in disparte, ma è solo una impressione: il contrabbassista contribuisce in realtà con una personalissima pulsazione, che fa da implacabile pungolo a tutta la struttura. Recchia appare assolutamente rilassato ed efficace: inizia con frasi blues, per poi allargarsi man mano verso pentatoniche sempre più “fuori”, aumentando ed alterando, facendoci passare in poche misure e senza soluzione di continuità da Parker a Brecker. E tutto senza dare l’idea di voler dimostrare nulla, ma solo di mettersi al servizio della musica con tutta l’intenzione di portare la nave in porto senza fare pericolosi ed autoreferenziali “inchini”.

Anche Kikoski non vuole dimostrare nulla: inizia pure lui con un forte mood dal sapore blues, inseguendo un suono che è altro da sé. Non è venuto qui stasera per far vedere che è bravo, è venuto per suonare. È qui per cercare di tirar fuori qualcosa da questo affascinante mostro ad ottantotto denti, e lo fa con grande determinazione e divertimento. E quando, sul finale, gli capita di mancare uno stacco, ride della cosa con grande autoironia. Dopo il solo di piano, un riff ritmico sottolinea i vivaci colpi della batteria, facendo salire di molto la pressione. Poi, è Fattorini a gettare acqua sul fuoco riportando i battiti sotto la soglia di allarme, con una bella improvvisazione accompagnata dal solo piatto ride.

Se il gruppo va forte nei medium e negli up tempo, sulle ballad è addirittura strepitoso. E, ancora una volta, è Kikoski che attira la mia curiosità e attenzione di pianista, quando rimane solo in Chelsea Bridge (Billy Strayhorn) e riesce a compendiare il jazz con elementi di dodecafonia, rimanendo comunque fortemente ancorato al bop.

Il quartetto messo su per questa serata sembra il quartetto della vita. Grande coesione ed unità, grande affiatamento, grande interplay. Anche la scelta della scaletta è particolare, toccando questa brani di Parker, Tyner, Recchia, Angelucci e Kikoski, in un mix molto equilibrato che si colloca nel territorio del bop ma che dimostra un respiro che va oltre ogni schema e che obbliga ad un ascolto scevro da preconcetti di sorta.

Musicisti che mettono se stessi al servizio della musica, ecco in sintesi il sottotesto della serata. Non hanno niente da dimostrare, non vogliono arrivare in cima per guardarci dall’alto ma cercano, come brave guide alpine, di portare in vetta tutti gli ascoltatori per godere insieme a noi della bellezza del creato.

Paolo Recchia Trio con Dave Kikoski
Paolo Recchia Trio con Dave Kikoski