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Incontro: “Informazione e promozione per il jazz italiano: i nuovi scenari digitali”

Il 31 maggio 2016 si è svolto alla Casa del Jazz un incontro dal titolo “Informazione e promozione per il jazz italiano: i nuovi scenari digitali”, promosso dalla Associazione Italiana Musicisti di Jazz (MIDJ), durante il quale ho avuto il piacere di essere intervistato da Vincenzo Martorella (curatore dell’incontro). Abbiamo parlato di come è nato il blog Jazzaroma e della accoglienza che ha avuto da parte dei musicisti e del pubblico. All’incontro, che verteva sulla promozione della musica attraverso l’utilizzo dei nuovi media, hanno preso parte: Vincenzo Martorella, Luigi Onori, Fiorenza Gherardi De Candei, Maurizio Alvino, Paolo Tombolesi, Raffaele Costantino, Enrico Cogno, Enzo Abbate. Un grazie speciale lo devo a Daniela Floris.

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Horace Silver rivive grazie all’Orchestra Operaia

Serata tributo a Horace Silver, giovedì scorso alla Casa del Jazz. Il grande compositore e pianista, scomparso lo scorso anno, è stato omaggiato da Massimo Nunzi e dai suoi  “operai” con un repertorio inusuale, tratto dagli album meno suonati di Silver, quali Silver ‘n Brass e Silver ‘n Voices, usciti per la Blue Note rispettivamente nel 1975 e nel 1976.

Con il supporto dei Lone Arrangers, vale a dire Claudio Toldonato, Marco Vismara, Alberto Buffolano e Damiano La Rocca (in ordine di esecuzione), l’orchestra ha eseguito caldi e swinganti arrangiamenti di Adjustment (Toldonato), Dameron’s Dance e Togetherness (Vismara), New York Lament (Buffolano), Sophisticated Hippie (La Rocca), ed alcuni altri tratti dagli stessi album, oltre ad un brano di Nunzi dedicato proprio al musicista capoverdiano.

Elementi di prim’ordine, come sempre, nell’Orchestra Operaia, difficile esaltarne uno a scapito di un altro: oltre a Massimo Nunzi (direzione e arrangiamenti), c’erano Marta Colombo (voce), Mario Caporilli, Alessandro di Bonaventura (trombe), Stan Adams, Pierluigi Bastioli (tromboni), Claudio Giusti, Alex Tomei, Carlo Conti, Marco Guidolotti (sassofoni), Alessandro Gwis (piano), Manlio Maresca (chitarra), Lorenzo Feliciati (basso elettrico), Pier Paolo Ferroni (batteria), Claudio Toldonato, Marco Vismara, Alberto Buffolano, Damiano La Rocca (lone arrangers), ospiti speciali Francesco Lento (tromba), Flavio Spampinato, Elena Paparusso, Stefano Lenzi (vocals).

Una serata bella e densa di Jazz, la possibilità di ascoltare i brani meno noti di un grande e sottovalutato come Horace Silver, un finale scoppiettante con una carambolesca versione del Pinocchio di Fiorenzo Carpi. Tutte cose che fanno piacere e che ci fanno sperare che la Casa del Jazz stia vivendo una nuova primavera anche grazie al contributo della associazione MIDJ di Ada Montellanico che tanto sta facendo per la causa.

Dado, Max e Stevie alla Casa del Jazz

Sono molto fortunato. Ultimamente mi capita di assistere a grandi concerti, e questo fa bene al cuore. Come ieri sera, alla Casa del Jazz, con Max Ionata (sax tenore, sax soprano) e Dado Moroni (piano, contrabbasso), i quali hanno meravigliosamente omaggiato la musica di Stevie Wonder. L’ho già scritto, e lo ribadisco: sono sempre scettico di fronte ad operazioni di questo genere, che spesso altro non sono che una strizzata d’occhio alla pratica commerciale di vendere un prodotto a più categorie di persone, al jazzofilo come al non iniziato. Ma questa è una di quelle volte in cui occorre ricredersi subito.

Il progetto presentato ieri alla Casa del Jazz è già disco, prodotto da Jando Music in collaborazione con Via Veneto Jazz, uno splendido disco, che occorre assolutamente ascoltare prima di esprimere giudizi affrettati. Parliamo dei musicisti? Difficile pronunciare aggettivi diversi da: strepitosi, swinganti e, perché no, sensuali. Ascoltare il loro concerto è come fare del buon sesso, godimento mentale ed anche fisico. Il feeling tra i due è perfetto, i colori si alternano con sapienza all’interno del paesaggio armonico disegnato da Moroni, mentre Ionata tratteggia le sue linee con gusto e raffinatezza. Ma non è una raffinatezza patinata, al contrario, contiene in nuce lo spirito del blues tipico della musica afro-americana.

Le vibrazioni cominciano dalle prime armonie, tensive quanto basta, già con The Secret Life Of Plants, piazzata ad inizio scaletta. Una intro di piano sognante e marcatamente jazz a creare una atmosfera da club. Uno scarto laterale, ed il piano attacca un ostinato di accordi sul quale si innesta il soprano di Ionata, ed il viaggio inizia.

Sexy e carica di blues la versione di Isn’t She Lovely che i due eseguono poi, con Moroni ad utilizzare la tecnica dello stride piano e Ionata a fraseggiare con il tenore. La canzone risulta così rivestita di una nuova identità, che funziona autonomamente al di là del successo mondiale della versione originale.

Ma poi, dicono i due alternandosi nelle presentazioni durante il concerto, Stevie Wonder è un jazzista, in realtà. E a riprova di ciò eseguono Chan’s Song, facente parte della colonna sonora del film Round Midnight di Bertrand Tavernier, che è stato scritto da Wonder insieme ad Herbie Hancock.

Momenti intensi ed infuocati sono il leitmotiv della performance, come quando Ionata esegue da solo la trascinante I Wish, coinvolgendo il pubblico in uno spontaneo battere di mani sul due e sul quattro ma dimostrando di non averne assolutamente bisogno, avendo ricreato da solo il groove che in genere solo un rodato gruppo completo di sezione ritmica riesce a creare. Poco più avanti, Moroni imbraccia il contrabbasso e anche qui dà prova di grande senso dello swing, erigendo solide walkin’ line che Ionata scala con perizia.

Non mancano momenti sognanti. Come in Overjoyed, abbastanza fedele all’originale ma con un retrogusto di note alterate che tanto gratifica il palato di chi ama il Jazz, o Ribbon In The Sky, eseguita in piano solo.

Curioso l’aneddoto, raccontato da Dado Moroni, a proposito di Piero Angela, presente tra gli spettatori. Durante una tournee in Giappone con i leggendari Modern Jazz Quartet, Dado fece loro ascoltare una registrazione di Peter Angela, ovvero di quello che tutti conoscono come giornalista e divulgatore scientifico, ma che vanta un passato come pianista jazz. A turno, Milt Jackson, John Lewis e gli altri ascoltarono e tutti pensarono si trattasse di Art Tatum.

Il bis è la ciliegina sulla torta: un riassunto, magistrale, di brani di Duke Ellington, al quale i due hanno dedicato il loro precedente disco. Tanti brani, passati in rassegna senza soluzione di continuità, partendo da In A Sentimental Mood, passando per Take The A Train, Satin Doll e fino a Caravan, sulla struttura del quale vengono eseguiti i soli, e poi a ritroso, in una sorta di esecuzione palindroma, per finire a sorpresa con A Child Is Born (Thad Jones, Alec Wilder).

Alla fine del concerto, presentato da Gegè Telesforo, una folla di entusiasti ha assediato i due musicisti tanto che è stato difficile ritagliare il tempo per una intervista. Ma ce l’abbiamo fatta, e la trovate qui: intervista a Max Ionata e Dado Moroni

Two for Stevie alla Casa del Jazz

Dopo l’omaggio a Duke Ellington, Dado Moroni e Max Ionata presentano un nuovo progetto dedicato a Stevie Wonder. Artista indiscusso della black music, Wonder è uno degli alfieri del soul e del rhythm and blues con contaminazioni pop, funky, reggae e Jazz. E proprio dal Jazz Moroni e Ionata iniziano questo viaggio alla scoperta della musica di Stevie Wonder, proponendo i suoi brani più importanti tra i quali OverjoyedIsn’t She Lovely, You Are The Sunshine Of My Life.

Venerdi 27 marzo 2015, alla Casa del Jazz, presentano il loro cd, prodotto da Jando Music in collaborazione con Via Veneto Jazz, un disco che ripercorre le tappe artistiche di Wonder dai grandi successi di Songs In The Key Of Life alle magie contenute in Hotter than July. Una serata all’insegna di nuove emozioni, ma su ritmi mai dimenticati.

Two for Stevie alla Casa del Jazz
Max Ionata | sax
Dado Moroni | piano and doublebass

Ore 21.00 – Ingresso € 10:00
Per gli eventi con inizio alle ore 21 la biglietteria è aperta al pubblico dalle ore 19 alle ore 22
Acquisto ONLINE http://bit.ly/1MrqEap

Arrigo Cappelletti Trio alla Casa del Jazz

Una domenica sera all’insegna della classe, grazie ad Arrigo Cappelletti (pianoforte), Furio Di Castri (contrabbasso), Bruce Ditmas (batteria), che hanno dato vita ad un omaggio a Paul Bley. Un omaggio nel quale, paradossalmente, la musica di Paul Bley non era presente. Ma ciò non è strano, visto che Cappelletti è un fautore dell’omaggio “altro”, consistente nel richiamare un artista attraverso il sentire musicale di questo e non attraverso le sue composizioni (peraltro Bley non è compositore prolifico).

Il playing di Cappelletti è stratificato, risultante di tutte le componenti maturate in anni di ascolto ed insegnamento del Jazz, sia nelle composizioni a sua firma (si ascolti Durate, terzo brano in scaletta, ballad giocata su note lunghe in dialogo con il contrabbasso di Di Castri, che utilizza lo schema call and response ma in chiave moderna ed a tratti sottintesa, oppure l’esecuzione di Pannonica utilizzando la sola struttura armonica e stravolgendo il tema), sia nei brani di altri autori (Thelonius Monk, Abdullah Ibrahim). Una sorta di passeggiata attraverso vari modi di intendere il Jazz, tutti alti e di grande qualità. E non potrebbe essere altrimenti, visto che Cappelletti, oltre che pianista, è docente e studioso di Jazz con all’attivo anche un libro su Paul Bley, Paul Bley: La logica del caso (edito da Lepos, Palermo, 2004), successivamente tradotto in inglese con il titolo The Logic of Chance (Vehicule Press, Montreal, 2010), ed il recente La filosofia di Monk o l’incredibile ricchezza del mondo, (Mimesis editore, Milano, 2014), scritto a quattro mani con il suo allievo Giacomo Franzoso. Sarà anche per via di questo libro, da poco uscito, che sono ben quattro i brani di Monk eseguiti, la citata Pannonica, Crepuscule With Nellie, Ruby My Dear e Brilliant Corners, alcuni completamente modificati, altri più riconoscibili (Ruby My Dear), tutti pregni della profonda conoscenza musicale di Cappelletti e di notevole interesse, anche grazie all’apporto attento di Furio Di Castri e Bruce Ditmas.

Insomma una serata veramente degna di nota, alla Casa del Jazz.

L’etichetta 28 Records debutta con un concerto alla Casa del Jazz

Ebbene sì, in un periodo di crisi del mercato discografico esistono ancora dei folli che fondano una etichetta. I folli in questione si chiamano Natacha Daunizeau e Marc Reynaud, rispettivamente proprietaria e direttore artistico del 28DiVino Jazz, il club romano a forte vocazione scout talenting.

La 28 Records esordisce con il disco Our Ground, registrato dal vivo il 10 aprile 2014 al 28DiVino Jazz Club. Il disco è a firma di Marco Colonna (sax tenore, clarinetto basso), con Fabio Sartori (Hammond), Stefano Cupellini (batteria), ed è difficilmente classificabile senza scadere in etichette che sempre troppo poco dicono della musica suonata. Si tratta di improvvisazione, senza dubbio, in grado però di definire sempre una qualche struttura che offre più di un appiglio anche all’ascoltatore meno avvezzo. Un approccio pan-modale basato sul groove, un free che ho già in passato definito “sostenibile” proprio perché ben radicato in un “senso” musicale tradizionale, cosa questa che permette una chiave di decifrazione alla portata di tutti.

Domani sera, alla Casa del Jazz, verrà dunque presentato il disco e si terrà un concerto nel quale, oltre al trio base di Colonna, si esibiranno anche Claudio Martini (fagotto) e Danielle Di Majo (sax contralto, sax soprano). Una grande festa dove, oltre a godere del concerto dal vivo, sarà anche possibile acquistare il CD. Da non perdere.

Registrazione live del disco Our Ground, 28DiVino, Roma, 10 aprile 2014

venerdì 27 febbraio 2015 ore 21
MARCO COLONNA “MC3  UNITY”
Marco Colonna (clarinetto, cl. basso, sax tenore)
Claudio Martini (fagotto)
Danielle Di Majo (sax contralto, sax soprano)
Fabio Sartori (hammond, pianoforte)
Stefano Cupellini (batteria)
Ingresso euro 10

Recensione del concerto del 10 aprile 2014

Pagina ufficiale Casa del Jazz

La maturità non è un fatto anagrafico

Venerdì sera, alla Casa del Jazz, un giovane sassofonista di nome Mattia Cigalini ha fatto sapere a tutta la numerosa platea, semplicemente suonando il suo sax alto, che ci sono ancora giovani musicisti pronti a rottamare i vecchi. Questa asserzione va letta non in senso negativo, ma come pungolo a tutti, giovani e vecchi, a fare sempre di più e meglio.

Siamo in tanti, nonostante la pioggia, e la formazione che abbiamo dinanzi è particolare, senza basso. Oltre a Mattia Cigalini (sax alto), leader della formazione, ci sono Gianluca Di Ienno (pianoforte) e Nicola Angelucci (batteria). Si parte subito alti, con un brano che ricorda da vicino gli Yellow Jackets e che si ispira a culture lontane. Cigalini non ha fretta di esibirsi, non cerca il numero come si conviene ad un musicista di lunga esperienza. Attende con atteggiamento ispirato il momento del guizzo, l’estro creativo.

Ed ecco che il secondo brano, East, strutturato su tempi dispari, offre l’occasione, a lui come ai suoi comprimari, di misurarsi con una struttura più complessa, per quanto  basata su un concetto modale. I ritmi diventano più veloci, il sax si avventura su impervie sequenze triadiche, il tutto sempre con grande controllo.

Symbolic è l’ulteriore passo di questa ascesa di cui siamo parte, ascesa dalla terra al cielo o, come usa dire in questi giorni, dalla bruttezza del quotidiano alla bellezza assoluta: ad una intro basata su un pedale di piano, si sovrappongono i mallets di Angelucci a conferire un aspetto tribale. Su tutto questo, Mattia gestisce con apparente semplicità un assolo in crescendo, passando prima da frasi liriche e consonanti per arrivare poi, in un crescendo emozionale, a frasi sempre più repentine a tratti sconfinando nei sovracuti.

In Horus, ad una intro di sax molto up segue poi un interludio pianistico più lento, con la batteria ed il piano stesso ad eseguire puntillismi dando la giusta verve al solista il quale ha così lo spunto per agganciarsi ad un ritmo swingante, con la batteria a scomporre con metro diverso dando così una sensazione di poliritmia.

Il concerto continua a farci ascendere, fino a quando, sul finale, Mattia decide di travolgerci direttamente, con un brano dal marcato accento bebop nel quale il sax esegue uno slap, il piano suona la walkin’ line, la batteria picchia forte e ci ricordiamo tutti all’improvviso dell’epoca d’oro, e mi chiedo: e se fosse nata stasera una nuova epoca d’oro?

Enrico Zanisi presenta… Keywords

Giovedi sera, alla Casa del Jazz, Enrico Zanisi ha presentato il disco Keywords, suonato in trio con Joe Rehmer (contrabbasso) e Alessandro Paternesi (batteria) e da poco uscito per la Cam Jazz. Il disco è la terza prova da leader  del pianista, già molto noto e apprezzato a dispetto della sua giovane età.

Come lui stesso ha avuto modo di confermare durante l’intervista che mi ha rilasciato alla fine del concerto, uno dei cardini intorno al quale ruota la sua musica è il mondo classico. A partire dal brano di apertura della serata, Träumerei di  Schumann, veniamo infatti teletrasportati in un altro spazio-tempo: siamo qui per ascoltare Jazz, ma improvvisamente ci accorgiamo di quanto poco significhi costruire altitudini di muri tra generi, e Robert Schumann confluisce nell’estetica di Bill Evans così come questo a sua volta ci conduce a Brad Mehldau, in un continuum che non ha altre regole se non la bellezza. Anche la scelta di Enrico di iniziare con il brano classico, brano che nel disco è invece ultimo in scaletta, sembra voler rimarcare questo concetto.

Il secondo brano, Equilibre, inizia con un arpeggio alla carillon eseguito con la mano destra al quale si sovrappone poi un arpeggio con la sinistra, bella prova di tecnica e indipendenza delle mani che ci fa intuire un altro degli ascolti di Enrico, il rock progressive. Qui Enrico si produce in un assolo, costruito su un ostinato suonato nella parte grave della tastiera del pianoforte mentre l’altra mano si inerpica disegnando melodicamente armonie, a tratti in e a tratti out, a tratti classiche e a tratti blues, in un riuscito equilibrio che non può che suscitare sentimenti estatici anche nell’ascoltatore più smaliziato.

In Beautiful Lies, ad un tema esposto secondo gli stilemi della ballad e dopo un elegante e deciso assolo di contrabbasso, segue un solo di piano durante il quale apprezziamo tutta la verve zanisiana, che quando è il momento viene fuori con tutta la sua  contenuta e perfetta irruenza.

Segue Au Revoir, ballad filmica e introspettiva, e poi Claro, con momenti nei quali si evidenzia il lucido interplay con la batteria ed il contrabbasso. Sia Joe Rehmer che Alessandro Paternesi sono perfettamente in sintonia con il leader, dimostrando una unitarietà e maturità di trio notevoli, a partire dagli attacchi non dati: il classico “one, two… one-two-three-four” non vengono mai dati, semplicemente il trio… inizia a suonare! L’intenzione poliritmica è spesso presente, così come i tempi dispari, ma ogni analisi teorica si rivela incapace di descrivere l’estetica di brani come Recitativo (brano nel quale l’ispirazione classica ci sembra mediata da ascolti metheniani) o Magic Numbers (altro brano nel quale gli ascolti progressive di Enrico emergono in tutta la loro enfasi).

Più che un concerto, un percorso emozionale, che nonostante la complessità dei tempi e la ricerca di forme elaborate non manca di ammaliare l’ascoltatore che voglia spogliarsi delle pochezze della quotidianità per immergersi in una piscina termale rigenerante come un ventre materno, nel quale tutto basta alla vita ed alla salute di corpo e anima.

Mi piacerebbe vedere Enrico in un tour negli Stati Uniti, sono sicuro che da lì acquisterebbe quella ulteriore visibilità che merita. Nel frattempo mi godo la possibilità di vederlo a due metri dal bel palco della Casa del Jazz, e perfino di intervistarlo a fine serata.

Daje Enrico…

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Intervista a Enrico Zanisi dopo il concerto

Sito Cam Jazz da dove è possibile ascoltare e acquistare il disco