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Whiplash: uno sguardo jazzistico

Ho avuto modo di vedere Whiplash, il film del 2014 diretto da Damien Chazelle. Dal momento che il film tratta di un batterista Jazz, ho deciso di scriverne un post. Non do qui un giudizio critico del film, in quanto non mi occupo di questo e lascio ai critici cinematografici il compito. Il mio giudizio è il giudizio di uno che si occupa di Jazz.

Immagino che il pubblico di Whiplash possa idealmente dividersi in due categorie: i frequentatori del Jazz, ovvero coloro che lo suonano, lo hanno suonato almeno per un periodo della loro vita o comunque lo ascoltano con passione. E gli altri.

Ebbene mi sto interrogando, da quando ho terminato di vederlo, se il film di Damien Chazelle renda o no un servizio utile al Jazz. Perché il quadro che ne viene fuori è desolante e l’immagine che passa è che, per diventare un jazzista, devi tirare fuori il peggio di te: rinnegare amicizia, amore, lealtà; essere pronto a sputtanare un collega, umiliarlo, e ad esaltarti fino all’inverosimile convincendoti che sei tu il migliore e che hai “diritto” al tuo successo. Ma è davvero questo il mondo del Jazz? Certamente è anche questo, come per ogni ambiente di qualunque tipo. Quello che è certo è che, se fossi uno degli “altri”, forse non mi appassionerei al Jazz vedendo questo film, anzi probabilmente me ne terrei alla larga.

Non solo: se è vero che a volte, per tirare fuori il meglio da un allievo, è necessario che l’insegnante sia severo, è altrettanto vero che la severità deve limitarsi all’esigenza di uno studio costante, senza lesinare all’allievo segni di approvazione per i progressi raggiunti. E, nondimeno, senza cadere in isterismi ed eccessi quali quelli che si vedono nel film.

Infine, da persona che si occupa di Jazz, devo dire che il film non solo non rende alcun servizio al Jazz, ma non dà nemmeno quel senso di compiutezza che l’esposizione di una tesi dovrebbe contenere. La tesi è che per riuscire nel Jazz (come in qualunque altro campo) si debba scontrarsi con maestri psicolabili (in grado di portare al suicidio la persona più fragile), tirare fuori il peggio da sé e, se si rimane integri (fisicamente e psicologicamente) si arriverà al successo. Una tesi semplicistica, tipica della peggior specie del cinema americano, che esalta ancora una volta una visione muscolare e violenta del successo, senza mai porre l’accento sulla bellezza della musica, sulla passione per lo studio, sul valore della competenza intesa come figlia di dedizione e serietà, competenza sviluppata senza clamori e senza renderci preda di derive caratteriali.

Lontano dalla bellezza struggente e crepuscolare di Round Midnight, capolavoro di Bernard Tavernier del 1986, più incline allo stile celebrativo del Bird di Clint Eastwood (1988), è un film che può avere un suo appeal, ma che sta al Jazz come un gelato estivo ad un’isola dei caraibi.

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