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Bossanova al Bebop

Venerdì sera ho assistito al concerto di Paolo Recchia (sax alto) con Enrico Bracco (chitarra) e Nicola Borrelli (contrabbasso). I tre presentavano il disco Three For Getz (già alla quarta ristampa), che abbiamo già recensito su queste pagine, un disco manifestamente dedicato a Stan Getz il quale, nella seconda parte della sua vita, si appassionò molto ai ritmi del sudamerica. Da qui, viene naturale che sul palco ci fosse un’ospite brasiliana, Val Coutinho, cantante di grande spontaneità e immediatezza, che si è esibita senza filtri e proprio per questo si è fatta apprezzare.

Il concerto inizia con Hershey Bar (John Mandel), uno swing della migliore tradizione americana. Subito dopo, Val viene invitata da Paolo Recchia a guadagnare il palco del Bebop, palco dal quale inizia a cantare Jobim. Tanti sono i brani pescati dal songbook del grande musicista brasiliano, tra i quali Chega de saudade e poi Luiza, nel quale Recchia sceglie di non suonare, lasciando generosamente questo e altri spazi alla cantante.

Una serata virata decisamente verso il Brasile, dunque, fatta eccezione per Indian Summer (Victor Herbert) e Voyage (Kenny Barron), presenti sul disco Three For Getz e che il trio di Recchia esegue con grande classe.

Paolo Recchia è un musicista di grande sensibilità, molto attento al suono e alla continua ricerca di qualcosa di più e di nuovo, come si conviene ad un artista che possa definirsi tale. Non da meno sono Enrico Bracco, chitarrista anche lui molto attento ai dettagli del suono e preciso nel fraseggio,  e Nicola Borrelli, un vero metronomo che rende la performance alla stregua di un trenino che, di scambio in scambio, senza mai esitare ci porta a destinazione in perfetto orario.

Un concerto di quelli che non possono mancare nel carnet di un vero appassionato, non mancate l’occasione se capitano nella vostra zona.

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Intervista (audio) a Paolo Recchia

Recensione disco Three For Getz

Sito ufficiale di Paolo Recchia

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La resilienza di Milena

 Stasera mi capita di assistere ad un concerto e di accorgermi, all’improvviso, che non è necessariamente il suono muscolare che fa un sassofonista. D’accordo, ormai l’estetica più marcatamente bebop è lontanta nel tempo (ma nemmeno poi tanto, se si guarda ai tanti emuli di quel periodo d’oro), ma l’ascoltare Milena Angelè ed il suo sax tenore mi apre prospettive nuove. A voler fare un confronto ardito, potrei paragonare il suo sassofonismo al pianismo sensibile e poetico di Lyle Mays.

Inizia la ormai tradizionale rassegna Pinky High Jazz, che il 28DiVino dedica ogni anno al Jazz declinato al femminile: Milena Angelè (sax tenore) è accompagnata dal suo trio bassless, con Edoardo Ravaglia (piano e tastiere) e Mario Lineri (batteria) ed esegue brani originali oltre ad alcuni pezzi di Wayne Shorter (Footprints, Tom Thumb, ESP), dichiarato riferimento di Milena. L’occasione è propizia anche per parlare del suo disco Resiliency, appena uscito per l’etichetta Zone di Musica, che verrà presentato ufficialmente al Cantiere, in via Gustavo Modena 92, il prossimo 15 marzo.

Il concerto inizia con Footprints il cui tema, esposto dal sax tenore, è sostenuto dal comping di Ravaglia al sintetizzatore. L’atmosfera si fa subito fumosa, e si intravedono gli arredi di un club newyorchese degli anni 60, ma anche le nebbie di un porto nordeuropeo.

Si passa ad un intermezzo, scritto dal pianista Ravaglia, un 3/4 delicato che introduce il tema altrettanto delicato di Sliding a firma di Milena. Il mood poetico si percepisce senza soluzione di continuità anche in pezzi più up come Resiliency, la title track, mentre l’equilibrio ed il gusto della sassofonista sono sostenuti con grande dedizione e rispetto da parte dei suoi sodali, i quali non mancano di sottolineare o di arretrare qua e là, a seconda del caso.

In scaletta anche The Days Of Wine And Roses, l’indimenticato brano di Henry Mancini, e standard quali Moon River  e Night And Day.

Alla fine della serata ho l’occasione di fare due chiacchiere con Milena Angelè, a coronamento di quello che è stato sicuramente un concerto interessante e piacevole.

Su disco Milena è accompagnata da Edoardo Ravaglia al piano e tastiere, da Enrico Bracco alla chitarra, da Riccardo Gola al contrabbasso e da Fabio Sasso alla batteria.

Una ragazza da tenere d’occhio.

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Intervista radio a Milena Angelè

Milena sul sito Zone di Musica

Pacman Returns

Il 28Divino Jazz è sempre in prima linea nell’offrire ai suoi soci le novità della scena musicale. Ed anche stasera un nutrito pubblico di appassionati ha potuto gustare Jazz di prim’ordine, suonato da musicisti di prim’ordine. Il progetto, a firma di Andrea Biondi, si chiama Pacman Nemesis e vede Andrea Biondi (vibrafono, live electronics) con Daniele Tittarelli (sax alto), Enrico Bracco (chitarra), Jacopo Ferrazza (contrabbasso), Valerio Vantaggio (batteria). Presentano il loro disco, da poco inciso ed in cerca di una etichetta.

Pacman, famoso gioco elettronico dei primi anni Ottanta, è la metafora dell’uomo, costretto ogni giorno a correre e cacciare fantasmini. Ed è proprio il campionamento del suono a 8 bit, colonna sonora del videogame, ad aprire la serata. I brani, per la maggior parte a firma di Biondi, denotano un certo gusto funky, ed un marcato utilizzo delle strutture ritmiche dispari (gli anglofoni direbbero odd meters, dove odd significa anche strano, bizzarro, ed è probabilmente questo l’obiettivo di Biondi, rendere palpabile il senso di estraneità dell’uomo alla sua vita stessa).

Si parte con Nomen Omen, caratterizzato da un tema con una parte A funky ed una parte B swing.  Il primo solo è per Tittarelli, il cui sound non manca di accarezzare con decisione le volute del brano, rimanendo distaccato come una nave dal faro. Il suono è misurato, mai strabordante; spesso si avventura fuori dalla tonalità ma vi rientra con incredibile naturalezza.

Ambarabà è il secondo brano, anche questo sui colori del funky ma che sul primo solo, eseguito da Biondi, si apre completamente perdendo una struttura ritmica propriamente detta e lasciando spazio al leader per evolvere in un fraseggio liquido, a tratti scoglioso, sempre eufonico e con impercettibili ma caratterizzanti strizzate d’occhio alla musica contemporanea. Il brano sfrutta poi degli scambi sax-chitarra, reiterati ad libitum, a creare una tensione crescente, fino ad una inaspettata chiusura. Parte l’applauso, ma poi il contrabbasso riattacca ed introduce il tema finale, che chiude davvero il pezzo.

È il momento di un brano a firma di Bracco, Alis in 3, un tre quarti ispirato che parte con una intro di chitarra sola seguita dal tema, esposto dal sax. Qui Biondi lascia generosamente la scena ai suoi comprimari scegliendo di non eseguire il solo, dando spazio prima al bravo Bracco e poi al sax di Tittarelli.

Anche il successivo brano, Keka, vede Bracco ad introdurre con un guitar solo, stavolta quasi esoterico, per via dell’utilizzo creativo di alcuni effetti. Il mood diventa poi poliritmico, sax e chitarra espongono il tema quindi parte il solo di vibrafono. Forse questo ed anche il successivo brano, Pacman Changes, sono la parte più rappresentativa del lavoro, dove quel senso di estraneità si manifesta con forza ma anche con una sorta di insita rassicurazione, che in fondo se il mondo è sempre andato così allora ce la possiamo fare, per intere generazioni siamo sopravvissuti al “logorio della vita moderna”, e dunque perché disperarsi?

La serata vola via entusiasmante, con le vibrazioni che ci avviluppano e la temperatura che sale, con un altro brano di Bracco, il Blues del gatto nero e Joe (dedicata al vibrafonista Joe Locke).

Ci aspettiamo un grande interesse delle etichette discografiche per questo lavoro, che speriamo dunque di veder presto pubblicato. E vi invitiamo a comprare il disco, quando uscirà. Anche se, come sanno bene i nostri lettori, nulla è più entusiasmante che sedersi al tavolino di un club ed ascoltare un vero vibrafono sorseggiando del buon vino.

Jazz Talk: due chiacchiere con Andrea Biondi

Enrico Bracco 4et

Niente di meglio, per allentare la tensione di una settimana lavorativa, che capitare all’Alexanderplatz mentre sta suonando Enrico Bracco con il suo quartetto. Il concerto è appena iniziato con le note di Isfahan (Ellington/Strayhorn), suonata ad un tempo un po’ più veloce rispetto a quello dello storico video del nel quale Duke regge lo spartito a Johnny Hodges. Atmosfera rilassata, swing pulsante, creano un benefico effetto coadiuvando l’ipotalamo nell’abbassare i livelli di stress accumulato.

Enrico è un chitarrista sensibile, con un fraseggio agile e sempre in tema, sia che suoni moderno, con arpeggi triadici e scale aumentate, sia che suoni classico, tra scale bebop e diminuite. E non è da meno questa sera, ben coadiuvato da Luca Fattorini al contrabbasso, il quale è essenziale e perfetto al tempo stesso mentre accompagna brani originali come Sman o Alis 3.

Al sax tenore Matt Renzi fornisce il naturale compendio del leader, suonando i temi all’unisono e regalando soli belli e ispirati come in But Beautiful (Van Heusen). Non mancano momenti più up come l’esecuzione di Isotope (Henderson), e momenti più rilassati come Flower, una bossa funkeggiante scritta da Bracco nella quale Marco Valeri ha modo di dimostrare tutta la sua dote ritmica.

A sorpresa, ma non troppo, la chiusura del concerto vede il quartetto trasformarsi in quintetto, con Luca Mannutza che si materializza al pianoforte e che con All Too Soon (Ellington) ci saluta, mandandoci a casa molto più buoni.

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Paolo Recchia omaggia Getz

Paolo-Recchia_webHo ascoltato e riascoltato con grande piacere Three For Getz, il nuovo disco del sassofonista Paolo Recchia inciso in trio per l’etichetta giapponese Albòre Jazz. Il trio è composto, oltre che da Paolo Recchia (sax alto), da Enrico Bracco (chitarra) e Nicola Borrelli (contrabbasso), e l’omaggio a Stan Getz sta principalmente nella scelta dei brani, mutuati dal repertorio del grande sassofonista statunitense.

Il disco si presenta con un suono caratteristico, dal sapore antico, risultando nel contempo fresco ed attuale. Attuale per via della capacità di Recchia di essere sempre un passo avanti, di creare immagini musicali che, pur nascendo da un humus culturale consolidato rimandano ad un presente dinamico, in perenne tensione verso un punto che si sposta continuamente avanti. Che poi è il senso stesso dello swing, del quale il disco è intensamente permeato, al pari di una spezia ad impreziosire un piatto buono già di per sé.

Fondamentale, nell’economia di questo lavoro discografico, l’apporto di Bracco e Borrelli: il primo, del quale non si può non apprezzare laPaolo-Recchia-Trio---Three-for-Getz_web sensibilità e la bravura, è perfettamente al servizio dei brani, sempre in sintonia con Recchia sia quando accompagna sia durante gli assoli; il secondo non è da meno, e restituisce sotto forma di pulsazione tutta l’energia generata dai suoi due sodali. I brani sono quelli che Getz ha suonato in cinquanta anni di carriera, da Indian Summer (dal disco Quartets) a Three Little Words (Stan Getz and the Oscar Peterson Trio), da Grandfather’s Waltz (Stan Getz & Bill Evans) a O Grande Amor (Getz/Gilberto featuring Antonio Carlos Jobim), fino a First Song tratto da People Time, inciso con Kenny Barron al Jazz Cafe Montmartre di Copenhagen nel marzo 1991, tre mesi prima di morire.

Un omaggio sentito e raffinato, dal quale emerge tutta la musicalità di Paolo Recchia e che, a nostro personale parere, riecheggia proprio l’atmosfera di quel bellissimo ultimo concerto di Getz con Kenny Barron, denso come quello di pathos e swing. Un disco da sentire in pieno relax, possibilmente con un buon impianto, per gustarne appieno ogni sfumatura e riconciliarsi con la vita.

Anno: 2013

Titolo: Three For Getz

Artista: Paolo Recchia Trio

Indian Summer / Carpetbaggers Theme / Grandfathers Waltz / Three Little Words / First Song / Hershey Bar / O Grande Amor / Voyage / The Peacocks

Relaxing with FBI

L’organo Hammond è uno strumento bellissimo, inventato nel 1935 da Laurens Hammond, un ingegnere meccanico statunitense. Lo scopo era quello di riprodurre il suono del classico organo a canne delle chiese con uno strumento più compatto. Un mobile di “appena” 100 Kg, in cui il suono generato dalle ruote foniche (tonewheels) può essere controllato attraverso dei tiranti (drawbars) i quali costituiscono una sorta di mixer delle varie armoniche.

Scendo per primo i quindici gradini del 28DiVino Jazz, e vengo subito colpito dalla macchia rossa del Nord C1, uno strumento che riproduce il suono dell’Hammond in appena (stavolta senza virgolette) 15 Kg. Lo strumento è moderno, con dei LED colorati al posto delle drawbar, e tanti mini pulsantini al posto di tastoni e leve. Chi l’ha detto che solo le cose vecchie sono buone? Questo strumento può darti grandi emozioni, se nelle mani giuste.

Le mani giuste sono quelle di Riccardo Fassi, pianista, tastierista, arrangiatore, compositore e didatta, già leader della Tankio Band, una vita nel Jazz. Ieri sera affiancato da uno stupendo Enrico Bracco alla chitarra e dal trascinante Pietro Iodice alla batteria. Fassi Bracco Iodice, FBI. Ma c’è da stare rilassati. Niente interrogatori; solo swing trascinante, melodia intrigante e mai banale, musica a colori.

Sammy in 7, di Fassi, apre il concerto. Il tempo è in 7/4, e questo la dice lunga sull’approccio del trio. Tempi dispari, sia su brani originali sia su standard rivisitati, groove trascinanti, forte aderenza alla tonalità pur con le grandi aperture tipiche del playing moderno: scale alterate, pentatoniche, sequenze. Bracco esegue il tema, ben appoggiato dal comping di Fassi all’organo. La sensazione, nonostante il tempo dispari, è di grande fluidità, facilità di fruizione, tanto che un ascoltatore superficiale potrebbe pensare che sia un brano di semplice esecuzione. Perché i tre sono a loro agio, e fraseggiano comodamente su sequenze di accordi complicatissime, come in Walkin’ Up di Bill Evans, basata su accordi di maggiore settima con cambi continui di tonalità.

Uno dei pedali della chitarra di Bracco si spegne, sembra non ci sia verso di riaccenderlo. Non importa, si prosegue senza, nulla può fermare questo inarrestabile flusso di note. E si continua, prima con la ballad Compassion, sempre di Fassi, caratterizzata da un tema molto lirico che viene prima esposto dalla chitarra e poi esteso dall’Hammond, poi  con Slow Cat, basato su una serie infinita di accordi di dominante, quindi senza mai una vera risoluzione, una specie di blues molto accattivante che, nel tema classico (nel finale eseguito all’unisono da organo e chitarra), evoca le movenze di un gatto.

Tante e belle le influenze e le rivisitazioni, a partire da Sman, brano originale di Bracco di metheniana enfasi, passando per I Hear A Rapsody eseguita su un tempo di 5/4, fino a brani con caratteristiche filmiche, penso ad Allegro rabarbaro, di Fassi, un tango che rievoca le colonne sonore di alcuni film di Elio Petri, e ad Il Principe, dedicato a Totò, apoteosi della matematica in quanto costituita dalla teoria di misure 6/4 – 5/4 – 4/4. Ancora tempi dispari, alchimie complesse, eppure tutto scorre liscio, il tempo di sorseggiare un cocktail nel mezzo della musica, nell’atmosfera raccolta del 28DiVino, lasciandoci ingolosire da questo Hot Potato trio.

Il concerto si chiude con un bel bis, lo standard I’ll Remember April. Ma anche quando la musica cessa, le drawbar del Nord C1 rimangono lì, accese ed allegre, come ad incarnare il colore del Jazz. Nel frattempo ho l’occasione di parlare a lungo con Riccardo, Enrico e Pietro; e ogni tanto, guardandole, ripenso a Laurens Hammond.

Trio FBI
Trio FBI
Enrico Bracco
Enrico Bracco
Pietro Iodice
Pietro Iodice