Certo è difficile oggi, nel ventunesimo secolo. Difficile perché, dicono tutti, tutto è stato detto. Siamo passati dal tonale all’atonale, dagli Spiritual allo Swing, dal Bebop al Cool al Jazz Rock al Free Jazz. “L’avanguardia è nei sentimenti”, diceva Massimo Urbani nell’intervista La fabbrica abbandonata di Paolo Colangeli, ed è proprio questo concetto che potrebbe tornarvi in mente assistendo al concerto al quale hanno assistito quanti sono venuti oggi a Terni, al Teatro Secci. Perché se è vero che oggi per stupirci ci vorrebbe un miracolo, oggi al miracolo ci siamo andati davvero vicini. Non parliamo di bravura tecnica o di virtuosismo, i quali pure traspaiono in grande quantità tra le pieghe di questo concerto. Non parliamo di ossequio al pubblico, di voler cercare a tutti i costi l’applauso tralasciando quello che un artista di solito fa o dovrebbe fare, proporre cioè una nuova visione, nuove chiavi di lettura della realtà. Parliamo invece di gusto, di inventiva, di voglia di sperimentare ma senza tralasciare il divertimento. Parliamo di capacità di entrare in empatia con lo spettatore, di comunicare, prima ancora che note, sentimenti. E cosa c’è di meglio, per comunicare dei sentimenti, che farli risuonare nelle note di un tema o di un assolo?
Fabrizio Bosso non ha certo bisogno di presentazioni. Trombettista di talento, ha suonato in contesti diversi e sempre prestigiosi. Ed il suo quartetto si compone di altrettanti talentuosi musicisti: Nicola Angelucci (batteria), Jacopo Ferrazza (contrabbasso), Julian Oliver Mazzariello (pianoforte). Musicisti che, tutti insieme, hanno volato e fatto volare i presenti con brani di provenienze e mood diversi.
Si parte forte con Another Star di Stevie Wonder, che a dispetto della sua datazione (anni Settanta) sembra vestito di nuovo, suonato con un piglio jazzistico tale da conferirgli una propria personalità autonoma. Poi si rallenta, ma non troppo, con In volo, di Bosso, un brano malinconico, pur con un suo movimento fluido che ci invita a fuggire dalla malinconia, o per lo meno a farla camminare sempre almeno un metro dietro di noi. Ineffabile il lavoro ritmico della coppia Ferrazza/Angelucci, contrabbassista e batterista dotati di grande interplay. Jacopo Ferrazza è un musicista di razza, con molti anni di esperienza alle spalle e con un progetto in trio particolarmente interessante a proprio nome. Angelucci è un batterista raffinato, dotato di grande swing e senso sonoro, in grado di incontrare il gusto di musicisti italiani ed internazionali, con i quali ha ed ha avuto numerose collaborazioni. Non è da meno Mazzariello, pianista di grande inventiva, con sue peculiari personalissime grammatica e sintassi, autore del successivo brano Godness Gacious, dal sapore anni Trenta, che Bosso affronta con la sordina a creare quella tipica sonorità.
Tutto il concerto spazia poi da classici come Do You Know What It Means To Leave New Orleans di Louis Alter, a brani di Stevie Wonder (il citato Another Star e Sir Duke, dannatamente swingante, impossibile non battere il piede), fino a brani di grande impatto emotivo come Cantabile di Michel Petrucciani, che evoca il genio francese troppo presto scomparso, un altro classicissimo come Caravan (Duke Ellington), per finire con un altro brano di Bosso dal titolo Minor Mood.
Bosso è una miscela ben dosata di dolcezza e forza bruta, poesia e prosa, toni vellutati e frustate sonore. La miscela di un musicista che vuole dare quell’emozione di cui parlavamo all’inizio di questa storia. Una miscela fatta di pianissimo, di fortissimo, e di tutte le sfumature che ci sono nel mezzo, tante quante quelle delle nostre anime erranti. Perché qualunque viandante che si fermasse ad ascoltare il concerto del Fabrizio Bosso Quartet, da qualunque parte provenisse e per quanta strada avesse fatto, sarebbe completamente rinfrancato dal suono di questa band. Se vi capita a tiro, non perdetevela.
Oggi pomeriggio, con il concerto del Fabrizio Bosso Quartet tenutosi al Teatro Secci, si è chiuso ufficialmente l’Umbria Jazz Spring festival, svoltosi per la prima volta nella città delle acciaierie. In realtà c’era stato un primo timido tentativo nel 2017, ma quest’anno l’evento è stato organizzato con più dettaglio e determinazione. Tanti e tutti molti interessanti gli artisti in cartellone: il duo Kenny Barron/Dado Moroni, Paolo Fresu (con il progetto Two Islands, con Giovanni Sollima e l’Orchestra da camera di Perugia, ed in duo con Daniele di Bonaventura), Maria Pia De Vito, Fabrizio Bosso Quartet, Duologue di Steve Wilson e Lewis Nash, Cory Henry con The Funky Apostles.
Abbiamo particolarmente apprezzato anche gli Huntertones, gruppo formatosi all’università di Columbus, Ohio, oggi con base a Brooklyn, che coniuga l’improvvisazione con elementi di jazz, funk, soul, hip hop, rock, R&B, nonché i Funk Off, marching band toscana dal ritmo molto coinvolgente, ormai divenuta una istituzione del festival.
Prossimo appuntamento già in programma per il prossimo anno, sempre a Terni. E, da quanto dichiarato dall’organizzazione, visto anche il buon successo ottenuto, c’è l’intenzione di mantenere nella Città di San Valentino anche le edizioni a seguire.
Ne esisteranno un miliardo, di storie di New York. E come potrebbe essere diversamente? La città delle opportunità, delle tante culture, la città degli incontri. La città dove è stato inventato il Bebop e dove i più grandi jazzisti si sono formati, suonando fino al mattino nei bar e poi, in seguito, nei club. New York è anche la città dell’incontro tra Federico Ughi e Ornette Coleman.
E deve essere stato uno di quegli incontri che ti cambiano la vita, a giudicare dal concerto al quale ho assistito ieri sera, al 28DiVino Jazz. Il quartetto è composto dal leader Federico Ughi alla batteria, David Schnug al sax alto, Kirk Knuffke alla cornetta e Max Johnson al contrabbasso. Il primo impatto con loro è quasi mistico: Ughi attacca graffiando il silenzio primordiale, portandolo ad una dimensione materica per frammentarlo e deframmentarlo più volte. Il sax prima, e la tromba poi, si infilano sinuosi tra le pieghe dei battiti fungendo da legante. Il contrabbasso invece segue una sua linea, apparentemente più simile a quella di uno strumento solista che di uno strumento ritmico. Ughi usa la batteria come fosse uno strumento polimorfico: essa assume le forme sonore più svariate, come quando il piatto viene percosso e stoppato ripetutamente o quando le bacchette rimbalzano in modo apparentemente sconnesso sulle pelli.
Efficaci gli apporti del sassofonista Schnug e del cornettista Knuffke. Il primo, a tratti, nel fraseggio ricorda un certo cool alla Lee Konitz, mentre il suo modo di articolare sembra più legato al bop. Il secondo esprime una bella liricità che mi fa pensare al nostro Fabrizio Bosso. Johnson, al contrabbasso, risulta teso alla ricerca di nuovi linguaggi che vadano oltre il concetto di walkin’ line anche se, quando si tratta di dare una pulsazione swing, non disdegna di farlo nel migliore dei modi.
I brani, composti da Federico Ughi, sono per lo più contenuti nel suo ultimo disco (Federico Ughi Quartet, che uscirà a maggio), e sono in bilico tra melodia ed improvvisazione. L’apparente scrittura libera e aperta è in realtà un sistema ben congegnato di codici: attraverso il linguaggio della sua batteria Ughi comunica con i musicisti, che hanno così modo di capire cosa devono suonare. Questo consente una esecuzione senza soluzione di continuità tra un brano e l’altro, che aggiunge misticismo al misticismo.
Si passa da atmosfere rarefatte, di ispirazione nord-europea (e mi viene in mente in particolare il cd Cartography, di Arve Henriksen) a momenti in cui la melodia prende il sopravvento. E quasi spazza via la sperimentazione.
Una storia interessante tra le infinite storie di New York, dunque, che come tutte le storie di New York non è solo di New York ma di tutto il mondo.
In questi giorni ho avuto l’occasione di intervistare Filippo Cosentino, giovane chitarrista e compositore. Da poco è uscito il suo primo disco solista, Lanes, con la partecipazione di Fabrizio Bosso. Un disco variegato, che affianca standard e brani originali, nel quale le influenze sono molteplici. Filippo sta promuovendo il suo disco attraverso un tour che toccherà varie città tra le quali Roma e pertanto, in attesa di poterlo ascoltare dal vivo, gli ho fatto alcune domande.
[jazz@roma] La prima domanda riguarda una cosa che mi incuriosisce sempre, in un jazzista: in che modo ti sei avvicinato al Jazz?
[Filippo Cosentino] Domanda curiosa! Grazie di avermela fatta! Ho iniziato ad ascoltare le prime cassette quando avevo 14 anni, arrivavo da studi di chitarra classica e poco per volta ho acquistato musiche di Parker e di Armstrong, ovvero quello che all’epoca riuscivo a trovare nella mia città natale. Il lirismo e la potenza del suono di Armstrong mi colpirono tantissimo e da lì iniziai ad ascoltarlo assiduamente. E’ iniziato tutto così…
[J@R]E qual è, secondo te, il bello del Jazz?
[FC] E’ uno stile di vita, un modo di pensare e di vedere le cose. Devi trovare all’interno di te stesso le energie e l’idea del suono che cerchi per esprimere quello che hai in mente: il jazz ti permette non di suonare ciò che un altro ha scritto in precedenza ma di crearne una tua personalissima versione.
[J@R]Hai collaborato con tanti e diversi musicisti, frequentando generi diversi. In che modo tutto questo ha arricchito il tuo modo di suonare?
[FC] Ognuno dei musicisti con cui suono e ho suonato mi hanno arricchito condividendo la loro musica e il loro modo di vedere le cose e la vita. In generale credo che la cosa che più mi ha incuriosito è la ricerca della semplicità che nella mia musica si riflette nella ricerca melodica.
[J@R]Nel tuo disco Lanes hai inserito, a fianco delle tue composizioni, brani di grandi jazzisti del passato, da Thelonius Monk a Miles Davis a Gil Evans. Quanto è importante una certa continuità con il passato? Intendo, nel Jazz il passato è davvero passato?
[FC] Dal mio punto di vista serve capire da dove arriviamo, in ogni cosa: se solo applicassimo meglio la conoscenza del passato avremmo sicuramente più coscienza del presente. Nel disco, è vero, ho inserito quattro standard di importantissimi compositori del passato. Perché non farlo? Avevo la possibilità di dimenticarmi le versioni precedenti e crearne una nuova, una mia: le definisco “la mia versione dei fatti”. I temi hanno all’interno un potenziale enorme e spesso ci dicono come vogliono essere suonati: sin da quando ho iniziato a suonare Solar, ad esempio, ho immaginato un mix con la musica spagnola (ovvio, qui ci sono molte influenze dei miei studi classici). Così anche il tema stupendo di Hassan’s Dream: mi sono ricordato di quando da piccolo ti addormenti cullando un sogno; ogni volta che la sento ho ancora quell’emozione! Suonare le cosiddette riletture è provare a condividere con il pubblico le tue emozioni e i sentimenti che un tema altrui è ancora capace di darti. Per rispondere alla seconda domanda, veramente interessante, ci vorrebbe tantissimo tempo e provo a riassumere il mio pensiero: penso che noi giovani dobbiamo avere più coraggio nel proporre la nostra musica senza, magari per poter suonare di più o chissà cosa, continuare a dire “ancorati alla tradizione, etc”! Ho sempre pensato, già sui banchi di scuola, che il miglior modo di rispettare il passato risieda in poche regole: farne tesoro, crearne una tua immagine, innovare.
[J@R] Noto una grande vena intimista, a partire da Lanes, la titletrack, passando per le tue versioni di Las Vegas Tango e Hassan’s Dream, fino a quella che potrebbe essere una vera e propria suite, ovvero la sequenza di brani River Avon/Nuova dimensione/Spring Mood. Questa vena intimista, dicevo, rispecchia un aspetto del tuo carattere o è una scelta formale/stilistica?
[FC] Rispecchia totalmente il mio carattere. Credo che per ogni musicista la musica sia un mezzo per fare introspezione. Dopo che ho scritto un brano è come se mi sentissi più arricchito spiritualmente e intellettualmente, come se sapessi qualcosa in più di me che ancora non conoscevo. Mi piace dire la mia stando in punta di piedi.
[J@R]C’è da dire che poi, quando decidi di spingere sull’acceleratore, dai l’impressione di essere tutt’altro che intimista, come nel solo di Smokin’Jazz dove incarni la fusion più spinta…
[FC] E questo è il lato del mio carattere più intraprendente. Quando ho scritto Smokin’ Jazz mi ero chiesto se mai potessero andare d’accordo con la mia idea di jazz un loop di batteria, un basso funky, chitarre rock e pentatonica: ovvero volevo osare e vedere fino a che punto ci riuscivo. Era quello che mi mancava negli altri brani.
[J@R] Sul tuo disco suona Fabrizio Bosso. A mio avviso un’ottima scelta, Fabrizio è un musicista fantastico, la sua fama è internazionale, ed il suo suono si sposa benissimo con il tuo. Ma mi interessa sapere se c’è una motivazione particolare per aver chiamato proprio lui…
[FC] Non lo devo scoprire io e penso di non dire una cosa nuova ma ha un suono fantastico; nei due soli che ha inciso sul disco sembra che a volte stia suonando il flicorno. Ha una gestione del suono stupenda. Per come sono stati scritti Lanes e Smokin’ Jazz ho sempre immaginato e avuto in mente il suono della tromba che può avere grandi sfumature.
[J@R] E la collaborazione con Davide Beatino?
[FC] Ha inciso dei bassi meravigliosi! E’ un ottimo musicista e grande amico e dopo aver ascoltato i brani si è deciso a suonare sui due singoli del disco: due brani completamente differenti tra di loro ma che danno l’idea della padronanza del suono che ha Davide. Da queste collaborazioni mi sento arricchito più che altro dal punto di vista umano perché ho avuto la possibilità di lavorare con musicisti che prima di tutto sono persone stupende, semplici e immediate!
[J@R]Parliamo un po’ della tua attività didattica. In queste settimane stai portando in tour, oltre al tuo disco, anche delle masterclass sull’uso delle pentatoniche nel Jazz. Personalmente trovo che le pentatoniche siano una risorsa importante a disposizione dell’improvvisatore, che aiuta a creare un sound moderno e che consentono di stare più o meno “dentro” o “fuori” a seconda di come si usano. Che tipo di persone vengono a questi seminari? Giovani alle prime armi, musicisti più esperti, jazzisti, musicisti rock, blues? E perché un musicista dovrebbe venire ad un masterclass del genere?
[FC] Trovo che parlare di pentatonica e jazz sia un modo, spero, intelligente per avvicinare quanti più musicisti al jazz; inoltre è un argomento che bene si adatta ai differenti livelli di preparazione degli iscritti. E’ bellissimo vedere negli occhi dei ragazzi la soddisfazione di riuscire ad improvvisare su un brano ritenuto fino ad allora magari troppo complesso! Che tipo di persone vengono? Penso di essere fortunato perché arrivano musicisti di tutti i tipi: come dici tu “giovani alle prime armi” e musicisti che invece già conoscono i discorsi più avanzati e che magari arrivano da generi diversi e che si iscrivono per la curiosità: poi ne escono tutti entusiasti!
[J@R]In questo blog vengono recensiti gli eventi jazzistici romani, e pertanto la domanda è d’obbligo: quando e dove verrai a Roma? Presenterai solo il disco o terrai anche il masterclass? Chi ti accompagnerà in trio?
[FC] Sarò a Roma il 19 novembre e suonerò al 28 Divino in due differenti set: il primo in acustico da solo, il secondo i trio con Mauro Gavini e Mattia Di Cretico. Al 28 terrò anche il masterclass pomeridiano (posso approfittarne per ricordare che chi è interessato può scrivere a info@filippocosentino.com o direttamente al club? http://www.28divino.com ). In serata presenterò il disco; non vedo l’ora!
Anche io non vedo l’ora di ascoltarlo al 28DiVino, a questo punto sono proprio curioso.