Succede che alcune serate rimangano particolarmente nel cuore, o forse succede che alcuni musicisti risultino particolarmente affini a quello che è la nostra idea della musica. Fatto sta che la serata di ieri all’Alexander Platz la ricorderò a lungo con piacere.
Il concerto è del trio di Paolo Recchia, sax contralto, composto da Luca Fattorini al contrabbasso e da Nicola Angelucci alla batteria. E già, questo, sarebbe molto. Ma c’è un ospite che fa scattare la serata dallo status di “bella” a quello di “memorabile”: David Kikoski, un pianista che ho avuto già modo di vedere dal vivo con il suo trio e che non vedo l’ora di riascoltare stasera. Lui è un signore di cinquant’anni, sempre pronto alla battuta e disponibile al sorriso. Risponde affabilmente e con sincera modestia alle mie domande, nella pausa tra un set e l’altro, e quando gli dico che l’ho già recensito mi risponde serio: “Ed era una recensione positiva?”.
Il set inizia con Blues On The Corner, di McCoy Tyner. L’atmosfera è densa di significati, stratificati nelle mille sfaccettature dei generi e sottogeneri del Jazz, ma nulla è sopra le righe: dopo l’esposizione del tema ad opera di Recchia, doppiato a tratti dal pianismo irruente di Kikoski, il primo solo è per il sax. Kikoski non rimane sullo sfondo ma è parte attiva della performance. Regisce sempre ad ogni stimolo, sia che provenga dal solista sia che provenga dalla vivace batteria di Angelucci. Apparentemente è Fattorini l’unico a rimanere in disparte, ma è solo una impressione: il contrabbassista contribuisce in realtà con una personalissima pulsazione, che fa da implacabile pungolo a tutta la struttura. Recchia appare assolutamente rilassato ed efficace: inizia con frasi blues, per poi allargarsi man mano verso pentatoniche sempre più “fuori”, aumentando ed alterando, facendoci passare in poche misure e senza soluzione di continuità da Parker a Brecker. E tutto senza dare l’idea di voler dimostrare nulla, ma solo di mettersi al servizio della musica con tutta l’intenzione di portare la nave in porto senza fare pericolosi ed autoreferenziali “inchini”.
Anche Kikoski non vuole dimostrare nulla: inizia pure lui con un forte mood dal sapore blues, inseguendo un suono che è altro da sé. Non è venuto qui stasera per far vedere che è bravo, è venuto per suonare. È qui per cercare di tirar fuori qualcosa da questo affascinante mostro ad ottantotto denti, e lo fa con grande determinazione e divertimento. E quando, sul finale, gli capita di mancare uno stacco, ride della cosa con grande autoironia. Dopo il solo di piano, un riff ritmico sottolinea i vivaci colpi della batteria, facendo salire di molto la pressione. Poi, è Fattorini a gettare acqua sul fuoco riportando i battiti sotto la soglia di allarme, con una bella improvvisazione accompagnata dal solo piatto ride.
Se il gruppo va forte nei medium e negli up tempo, sulle ballad è addirittura strepitoso. E, ancora una volta, è Kikoski che attira la mia curiosità e attenzione di pianista, quando rimane solo in Chelsea Bridge (Billy Strayhorn) e riesce a compendiare il jazz con elementi di dodecafonia, rimanendo comunque fortemente ancorato al bop.
Il quartetto messo su per questa serata sembra il quartetto della vita. Grande coesione ed unità, grande affiatamento, grande interplay. Anche la scelta della scaletta è particolare, toccando questa brani di Parker, Tyner, Recchia, Angelucci e Kikoski, in un mix molto equilibrato che si colloca nel territorio del bop ma che dimostra un respiro che va oltre ogni schema e che obbliga ad un ascolto scevro da preconcetti di sorta.
Musicisti che mettono se stessi al servizio della musica, ecco in sintesi il sottotesto della serata. Non hanno niente da dimostrare, non vogliono arrivare in cima per guardarci dall’alto ma cercano, come brave guide alpine, di portare in vetta tutti gli ascoltatori per godere insieme a noi della bellezza del creato.
