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La carica del 28

Ebbene sì, lo ammetto: il Jazz degli anni Trenta e Quaranta per me è ancora oggi il Jazz più bello che ci sia, insuperato nonostante i mille tentativi (spesso, ahimé, non riusciti) di contaminare, stravolgere, rileggere.

E ieri sera, per un attimo, ci ho creduto davvero di trovarmi in quegli anni, con Franco Bolignari (voce), Alberto D’Alfonso (sax alto e flauto), Leo Cancellieri (piano), Gianni Foccià (contrabbasso) e Luigi Latini (batteria).

Per un attimo ho creduto che il 28DiVino si trovasse in un luogo senza spazio e senza tempo, un luogo nel quale On The Sunny Side Of The Street, Embraceable You, Fly Me To The Moon e My Foolish Heart fossero stati scritti da poco, ancora nella hit parade. Ed ho sentito Franco Bolignari cantare con uno scat invidiabile, quasi che da un momento all’altro potesse venir fuori Ella a duettare con lui; ho sentito Leo Cancellieri, che negli anni Sessanta è stato il pianista di Chet Baker, approcciare ogni nota con un gusto d’altri tempi ma sempre attuale; ed ho sentito Alberto D’Alfonso, a lungo nella band di Carosone, fraseggiare con godibile leggerezza sugli standard di sempre.

Accanto a me, dietro lo sgabello del pianista, c’era Rino De Lucia, batterista del mio quartetto Divieto di Bop e sodale di Foccià in quel di Cortina D’Ampezzo, dove giovanissimi ebbero occasione di esibirsi negli anni Cinquanta. Una bella sorpresa, per loro, rivedersi dopo tanti anni.

Una festa, dunque, in una grotta gremita e stipata fino all’inverosimile, in un tripudio di swing e di arpeggi diminuiti. Una festa che ha visto anche l’amichevole partecipazione di Steve Mariani, il quale sul finale si è unito al quartetto per suonare There Will Never Be Another You. E, non da ultimo, il bis ha visto Bolignari esibirsi in quella che fu la sua versione italiana di Crudelia Demon nel film La carica dei 101 di Walt Disney. Una festa per la quale non posso che dire grazie a questi ragazzi: grazie Franco, Alberto, Leo, Gianni, Luigi.

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Un americano a Roma, un romano a Boston

Arrivo a concerto iniziato, ieri sera al 28DiVino. Stasera c’è Henry Cook, sassofonista e flautista italo-americano accompagnato da Marco Mascaro alla chitarra, Riccardo Gola al contrabbasso, Luigi Latini alla batteria. E c’è un pezzo d’America, stasera, davanti a me. Un musicista nato in Italia da genitori americani, che ha vissuto e suonato il Jazz tra Roma e Boston, e che alla fine ha scelto Roma.

Vengo subito accolto da una bella versione di Peacocks, la ballad di Jimmy Rowles, eseguita da Cook al flauto soprano. Il suo stile è asciutto e diretto, americano, e la cosa mi piace: niente sentimentalismi, stasera. L’accompagnamento è denso con zone grumose, un flusso continuo di correnti e gorghi localizzati, come si conviene ad un Jazz per palati fini. Gola accompagna in uno, mentre Mascaro libera gli accordi facendo salire il volume con un transiente di attacco lungo. Latini è schietto, duro, ma di una durezza che accarezza l’orecchio. Mentre il brano prosegue mi scordo di essere a Via Mirandola, a Roma, e immagino di trovarmi da qualche parte sulla West 52nd Street di New York.

Henry prosegue poi con Dig, il contrafact di Miles Davis basato sullo standard Sweet Georgia Brown. Stavolta suona il flauto contralto, dando prova di grande agilità e fraseggiando con gusto classico e piacevole. Anche Mascaro fa la sua parte, con un bell’assolo a mestiere. Latini dà il meglio negli scambi di 4, quando si lancia in varie scomposizioni del tempo anticipando, ritardando, creando tensioni ritmiche e sciogliendole un attimo dopo.La serata si chiude con Naima, eseguita al sax contralto.

E così ho potuto vedere Henry in azione con ognuno dei suoi tre strumenti, stasera. Una bella sera che ricorderò con piacere.

Henry Cook 4et
Henry Cook 4et