Continua la serie fortunata dei bei concerti ai quali ho occasione di assistere in questo periodo. Un disco, dal curioso titolo Ogopogo, appena pubblicato sulle piattaforme digitali, è il pretesto per l’uscita di questo strepitoso quartetto che ieri sera, sul palco dell’Alexanderplatz, ha dato prova di poter tenere testa a qualunque star mondiale del Jazz. E se questa affermazione vi sembra esagerata fidatevi, è solo perché ieri sera non c’eravate…
Fabio Tullio (sax tenore, sax soprano), Alessandro Gwis (pianoforte), Luca Pirozzi (basso elettrico) e Massimiliano De Lucia (batteria) non hanno bisogno di presentazioni. Tutti musicisti di esperienza e talento, tutti in prima linea nel Jazz, già sulla carta si presentavano come una formazione di tutto rispetto. Ma quello che è scaturito è stato a mio avviso qualcosa di diverso e di più.
Di diverso perché, a dispetto dell’età (non me ne vogliano ma nessuno dei quattro ha più vent’anni), il sound che è venuto fuori è moderno, aperto ed internazionale. Un suono che ci saremmo aspettati da un gruppo americano, per dire. Di più, perché le composizioni, tutte originali a firma di Fabio Tullio a parte Footprints (Wayne Shorter), eseguita in apertura di secondo set, hanno un respiro che va anche oltre il Jazz, aspirando ad essere musica che prescinde dalle etichette, pur rimanendo Jazz fin nelle viscere.
Il brio di questa formazione emerge da subito, a partire da Sonni, il brano d’apertura del concerto. Ad un trascinante solo al sax tenore di Tullio fanno da contraltare le swinganti frasi di Gwis, a tratti disposte su intervalli di quarta, ripetute con variazioni a distanza di semitono le une dalle altre. Irruento, quasi un piano inclinato verso un fantastico baratro, l’accompagnamento di Pirozzi (al basso elettrico per la rottura del suo contrabbasso durante le prove), che morde il freno rendendo urgente ogni singola nota pizzicata, in bilico sull’acme del godimento musicale più sfrenato. Godimento ben sottolineato dal drumming preciso e tagliente di De Lucia. Scambi di 8 battute su 4 concludono il giro prima dell’head finale.
La cifra del concerto è racchiusa già tutta nel primo brano, dunque, ma sarebbe un delitto non scrivere di Mr. Chron, “dedicato” da Tullio al morbo col quale convive da anni e che rappresenta forse una sorta di autoanalisi dell’autore; o non parlare del divertente Ogopogo, la title track del disco, un titolo palindromo per un brano palindromo, nel quale il tema è eseguibile da capo a coda o da coda a capo con lo stesso risultato sonoro, e nel quale gli assoli stessi si invertono e, come in un vortice spazio-temporale, dopo la volta del sax del piano e del basso si torna indietro, di nuovo col solo di piano e poi di sax, per poi tornare al tema. Un brano con echi cool (mi vengono in mente Lennie Tristano e Lee Konitz, su tutti) che stuzzica la curiosità su più livelli.
La vena ironica di Tullio viene fuori in tanti titoli curiosi, come da lui stesso sottolineato durante la presentazione dei vari brani, ad esempio in Qwerty, un titolo buttato a caso digitando i primi cinque tasti della tastiera del computer ma che nulla lascia al caso nella struttura del brano essendo un even eights sofisticato, giocato su un tempo in 7/4, che ad una lunga introduzione di basso fa seguire un tema di ispirazione latin che avviluppa gli ascoltatori, traghettandoli con maestria verso la sezione degli assoli.
Non mancano brani marcatamente sentimentali come Love Song, introdotta al piano da Gwis (mi ha ricordato alcune cose di Sakamoto) e con un tema suddiviso in una parte lenta, quasi filmica, ed una parte up-tempo, che dà verve all’impalcatura sonora e ci costringe a battere il piede.
Non mancano nemmeno altri riusciti espedienti, come una sorta di puntillismo tra soprano e basso in Asterischi vari, un brano nel quale prevalgono atmosfere in out playing, nel solo di soprano, e di ispirazione araba nel solo di piano, solo di piano che si apre poi in una serie di block chords a creare dei riff perfettamente funzionali al brano stesso.
Tanto divertimento, ma anche impegno ambientalista con Gea, meravigliosa composizione che sembra riprodurre il respiro di Madre Terra, nel quale su un pedale di piano si innesta il tema del tenore, tema composto da frasi brevi alternate a note lunghe, di grande attitudine evocativa.
Infine, Tuning Tune è l’esplosione finale, una teoria ininterrotta di note palleggiate tra i vari solisti, un turbinio eccitante che ci dà la conferma finale, se mai ce ne fosse bisogno, che questo gruppo e questo disco sono qualcosa di notevole, che non si può non ascoltare se si va dicendo in giro di amare il Jazz. L’ho detto, poi fate come volete.
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