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Lost in the Jungle, Dario Chiazzolino

La sezione ritmica poggia quattro accordi, il primo ed il quarto in battere, i due di mezzo in levare. Il sax risponde infilandosi nella texture sonora, in un call and response di antica memoria scaldato però da un andamento funkeggiante. È Jump in a Dream, il primo brano del disco Lost in the Jungle, uscito nel 2015 per l’etichetta Tukool Records a firma dei Principles Sound, un gruppo di musicisti italiani e nord-americani dei quali fra poco dirò.

Un suono funky, dicevo, ed un fraseggio veloce nella parte B del tema, a muovere un brano che da subito ci invita a tenere il tempo con il piede, almeno fino a che non si dispone adagiato su note lunghe, quasi a darci un po’ di riposo. Ed è poco dopo che parte la chitarra del leader di questa formazione. Sto parlando di Dario Chiazzolino, chitarrista di razza che dimostra di saperla lunga, e dei suoi comprimari tra i quali, oltre a Pino D’Eri (basso elettrico) e al compianto Gianni Branca (batteria), troviamo niente di meno che Bob Mintzer (sax), Russell Ferrante (piano, tastiere), Jimmy Haslip (basso elettrico), che sono gli Yellow Jackets quasi al completo, la storica band del Jazz d’oltreoceano.

Lost in the Jungle, la title track, è l’ideale prosecuzione del brano precedente, con una dicotomia simile tra la parte e A e la parte B del tema. Ma lo sviluppo del groove è più tribale, e si giova del suono tagliente di Mintzer, unitamente al comping incondibile di Ferrante. Si passa poi per Six Stories, Butterfly e No Stop, fino a Sound Principles, una ballad in tre quarti nella quale il tema è esposto prima dalla chitarra di Chiazzolino, e poi, come in altri brani del disco, all’unisono da chitarra e sax. Per finire, Pearl of Mozambique, la quale non è altro che Lost in the Jungle con degli inserti vocali di chiara tradizione africana.

Ho avuto l’opportunità di fare alcune domande a Dario Chiazzolino, ed ecco cosa mi ha detto.

Dario, il tuo disco Lost in the Jungle sembra un tuffo nella fusion anni 90. Come mai la scelta di andare in questa direzione?
In realtà l’idea era quella di creare un progetto nel quale coesistessero elementi del jazz, del funk, della world music e in ultima analisi della fusion.
Inevitabilmente quando i brani vengono strutturati con una ritmica così compatta, stabile, granitica e per certi versi anche costante, è possibile rimembrare alcuni aspetti del jazz-rock.
Ma andando oltre, facendosi davvero trasportare dalle melodie, dai suoni e dalle improvvisazioni, si possono cogliere i diversi ingredienti.

La metà dei nomi dei musicisti appartengono niente di meno che agli Yellow Jackets! Parliamo di Bob Mintzer al sax, Russell Ferrante al piano e tastiere e Jimmy Haslip al basso. Come è nata la collaborazione con loro?
La collaborazione è nata in maniera molto spontanea. Abbiamo presentato loro la pre-produzione delle tracce che oggi costituiscono per l’appunto l’album Lost in the Jungle. Dopo un paio di giorni, una volta ascoltato il lavoro, hanno accolto con piacere la proposta e sono così saliti a bordo in questa “folle” avventura.

Le composizioni sono a firma tua, di Gianni Branca e Pino D’Eri. Come si sono trovati i Ferrante & co. con i vostri pezzi?
Insieme a loro abbiamo realizzato la registrazione in una giornata di studio. E’ stata un’operazione piuttosto naturale e scorrevole in quanto la scrittura dei brani era molto ben definita. La loro presenza ha davvero permesso al nostro progetto di crescere e di arricchirsi grazie alle loro straordinarie capacità. Con loro si è creato un rapporto professionale e di amicizia davvero forte. E’ stata una grande soddisfazione. E’ stato interessante soprattutto sentire il loro feedback sulle nostre composizioni. Hanno riscontrato, nell’ascoltare e soprattutto nel suonare i brani, la presenza di una forte connotazione world music, con echi e sfumature di bolero e lirismo tipico della musica classica. Questo ci ha davvero lusingati e nello stesso tempo sorpresi. Siamo probabilmente più radicati alla “nostra cultura” musicale di quanto possiamo immaginare. Per “nostra cultura” mi riferisco ovviamente al background di musica classica di cui l’Italia e l’Europa sono storicamente e scientificamente caratterizzate.

Parlaci di come ti sei avvicinato alla musica e in particolare al Jazz.
Inizio a suonare ad undici anni dopo aver ricevuto una chitarra classica in regalo dai miei genitori. Come la maggior parte dei più giovani chitarristi inizialmente ero attratto da sonorità rock, progressive. Mi piaceva la chitarra distorta che si esprimesse anche nella maniera più virtuosa e barocca. Dopo qualche anno, raggiunto un discreto livello tecnico ed una buona conoscenza dello strumento, ho avvertito l’esigenza di approfondire meglio i concetti armonici anche più complessi e soprattutto l’improvvisazione. Mi è sempre piaciuto improvvisare, su un accordo solo come su un lungo e tortuoso chorus armonico. Ho sempre in qualche modo ritenuto fosse l’aspetto musicale che meglio potesse caratterizzarmi e nel quale io stesso mi trovassi più a mio agio. Così occuparmi a tempo pieno di questa musica non è stata poi una reale scelta bensì una condizione che è venuta a crearsi spontaneamente.

Stai promuovendo il tuo disco in Italia? Riesci a trovare spazi per suonare e per far conoscere il tuo lavoro? O pensi la situazione sia migliore negli Stati Uniti, dove hai registrato Lost in the Jungle?
Ritengo che oggi in Italia il problema centrale sia la mancanza di pubblico interessato ad ascoltare la musica dal vivo, soprattutto nei club. Le giovani generazioni preferiscono i dj e i luoghi più affollati piuttosto che ascoltare con attenzione un concerto, qualunque sia il genere musicale. I festival per contro, in qualunque parte del mondo abbiano luogo, sono manifestazioni che richiamano più pubblico. Spesso si svolgono all’aperto o in occasione speciali e risultano essere dei veri e propri momenti di aggregazione.
Negli Stati Uniti, a New York per esempio, ogni sera ci sono oltre cento concerti di jazz ed il più delle volte sono sold out. Se non si acquista il biglietto d’ingresso con largo anticipo si rischia seriamente di non poter avere accesso. Non è certo mia scoperta realizzare che in America il jazz abbia un altro tipo di attenzione. Basta acquistare una guida di New York City per scoprire che tra le mete consigliate ai visitatori ci sono proprio i famosi jazz club: dal Blue Note al Village Vanguard, dal Dizzy’s Club Coca Cola allo Smalls, per citarne alcuni.
Per rispondere alla tua domanda in maniera più pragmatica, penso che il “far conoscere il proprio lavoro” dipenda molto dall’artista stesso. Oggi più che mai occorre essere degli ottimi manager di se stessi per assicurarsi una buona continuità di concerti e tournée. Non è sufficiente essere solo capaci a suonare, occorre sapersi muovere a 360 gradi.

Hai in cantiere un nuovo disco?
Il mio nuovo disco sarà in uscita il prossimo mese. l’album si chiama Red Cloud ed è stato registrato a Torino in collaborazione con il pianista Antonio Faraò, il bassista Dominique Di Piazze ed il batterista Manhu Roche.
In questo caso si tratta di un progetto di jazz contemporaneo. Il repertorio è composto da brani scritti di mio pugno con l’eccezione di uno standard al quale sono molto legato, ossia Solar di Miles Davis. Il disco è prodotto sempre dall’etichetta Tukool Records. Sono in trepida attesa per l’uscita, alla quale seguirà un tour di presentazione.

Lost in the Jungle

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Tukool records

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Piano americano

Quando si incontrano un pianista italiano come Domenico Sanna e due “ritmici americani” come Ameen Saleem (contrabbasso) e Dana Hawkins (batteria) non si può rimanere a casa; ed è per questo che ieri sera ho voluto esserci, alla seconda delle tre serate del trio, all’Alexanderplatz. Il locale, tanto per iniziare, era pieno fino al colmo. Avventori su ogni tavolino, musicisti e amici su ogni strapuntino, tutti lì per celebrare il Jazz, oltre che per ascoltarlo. Perché il jazz club è anche questo, un luogo di incontro per appassionati, sia musicisti che fruitori, che si ritrovano ogni sera insieme per un vero e proprio rito, che ha le sue consuetudini e le sue regole non scritte.

Di sicuro si realizza una osmosi quando culture musicali diverse si uniscono in un pur minimo ensemble quale è questo Society Games Trio, ed in questo caso l’osmosi è tra un pianismo di ispirazione europea ed una concezione ritmica americana nella sua forma più moderna. “Semplicemente suono il basso. Non saprei dire il genere: improvviso, ascolto, e cerco la mia strada all’interno del groove“, dice Ameen Saleem a proposito di sé. Ed ascoltando il concerto di ieri sera mi viene da pensare che questa filosofia sia stata mutuata da tutti e tre gli elementi del Trio.

Sanna sembra felicemente dotato di una esplosività controllata, che gli consente di passare con naturalezza da momenti intimisti quali l’introduzione, suonata in piano solo, di The Way You Look Tonight, che lascia la sala col fiato sospeso sopra i bicchieri di vino ed i dessert, al bop più spinto della parte successiva, quando si lancia in un assolo a tempo raddoppiato sospinto ed a tratti incalzato da Saleem ed Hawkins. Incalzato da un contrabbassista che sembra alla continua ricerca del suono, della nota, ma nella incarnazione più materiale piuttosto che in quella più eterea di una semplice armonica. E questa sua ricerca si manifesta non solo nel suo playing ma anche nei continui aggiustamenti di accordatura, nella disputa (non sempre vinta) con il jack della cassa monitor che proprio non vuol saperne di non gracchiare ogni tanto, nel pizzicare le corde con energia tale da farne uscire una dall’incavo del ponticello, dal suo togliersi il berretto e poggiarlo sul riccio del suo strumento. Una insofferenza costruttiva che apprezzo. E apprezzo, allo stesso modo, la gioiosa scoppiettanza di Hawkins il quale, lungi dall’essere una costruzione a tavolino di ciò che un batterista deve o dovrebbe forse essere, è coerentemente se stesso ed il suo strumento, in un tutt’uno impossibile da scindere. Per fortuna, perché secondo me è così che un batterista dovrebbe essere!

Insomma, Domenico Sanna è diventato un po’ americano suonando con questo Trio. Interessante il suo arrangiamento di Evidence, di Monk, che mi ricorda vagamente l’ostinato ritmico di Invisible People degli Yellowjackets; divertente D.D.J.L. (Jaki Byard), che mi era parsa la versione storta di I Got Rhythm (George Gershwin), suonata con rilassatezza ad un tempo metronomico vertiginoso; coinvolgenti le esecuzioni di Pinocchio (Wayne Shorter) e di LM (Daniele Tittarelli). Cito infine due brani a firma di Domenico Sanna, nuovi di zecca e pertanto ancora senza titolo, che non hanno mancato di solleticare i palati dei jazzofili presenti.

Un concerto di quelli belli, pieni di mood. C’è bisogno di dire altro?

Domenico Sanna con Ameen Saleem e Dana Hawkins

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Profilo Myspace di Domenico Sanna

Ameen Saleem Bio (in inglese)