A New York Story

Ne esisteranno un miliardo, di storie di New York. E come potrebbe essere diversamente? La città delle opportunità, delle tante culture, la città degli incontri. La città dove è stato inventato il Bebop e dove i più grandi jazzisti si sono formati, suonando fino al mattino nei bar e poi, in seguito, nei club. New York è anche la città dell’incontro tra Federico Ughi e Ornette Coleman.

E deve essere stato uno di quegli incontri che ti cambiano la vita, a giudicare dal concerto al quale ho assistito ieri sera, al 28DiVino Jazz. Il quartetto è composto dal leader Federico Ughi alla batteria, David Schnug al sax alto, Kirk Knuffke alla cornetta e Max Johnson al contrabbasso. Il primo impatto con loro è quasi mistico: Ughi attacca graffiando il silenzio primordiale, portandolo ad una dimensione materica per frammentarlo e deframmentarlo più volte. Il sax prima, e la tromba poi, si infilano sinuosi tra le pieghe dei battiti fungendo da legante. Il contrabbasso invece segue una sua linea, apparentemente più simile a quella di uno strumento solista che di uno strumento ritmico. Ughi usa la batteria come fosse uno strumento polimorfico: essa assume le forme sonore più svariate, come quando il piatto viene percosso e stoppato ripetutamente o quando le bacchette rimbalzano in modo apparentemente sconnesso sulle pelli.

Efficaci gli apporti del sassofonista Schnug e del cornettista Knuffke. Il primo, a tratti, nel fraseggio ricorda un certo cool alla Lee Konitz, mentre il suo modo di articolare sembra più legato al bop. Il secondo esprime una bella liricità che  mi fa pensare al nostro Fabrizio Bosso. Johnson, al contrabbasso, risulta teso alla ricerca di nuovi linguaggi che vadano oltre il concetto di walkin’ line anche se, quando si tratta di dare una pulsazione swing, non disdegna di farlo nel migliore dei modi.

I brani, composti da Federico Ughi, sono per lo più contenuti nel suo ultimo disco (Federico Ughi Quartet, che uscirà a maggio), e sono in bilico tra melodia ed improvvisazione. L’apparente scrittura libera e aperta è in realtà un sistema ben congegnato di codici: attraverso il linguaggio della sua batteria Ughi comunica con i musicisti, che hanno così modo di capire cosa devono suonare. Questo consente una esecuzione senza soluzione di continuità tra un brano e l’altro, che aggiunge misticismo al misticismo.

Si passa da atmosfere rarefatte, di ispirazione nord-europea (e mi viene in mente in particolare il cd Cartography, di Arve Henriksen) a momenti in cui la melodia prende il sopravvento. E quasi spazza via la sperimentazione.

Una storia interessante tra le infinite storie di New York, dunque, che come tutte le storie di New York non è solo di New York ma di tutto il mondo.

Federico Ughi
Federico Ughi

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